“Il calcio è l’ultima rappresentazione sacra del nostro tempo. E’ rito nel fondo, anche se è evasione. Mentre altre rappresentazioni sacre, perfino la messa, sono in declino, il calcio è l’ultima rimastaci. Il calcio è lo spettacolo che ha sostituito il teatro”.
Questo scriveva nel 1970, su “L’Europeo”, Pier Paolo Pasolini. Fortunatamente per lui, lo scrittore friulano non ha assistito alla metamorfosi che ha subìto il calcio nel corso degli anni, che lo ha retrocesso, progressivamente, da spettacolo a guerriglia urbana. Ogni volta che la violenza irrompe nel calcio porta con sè fiumi di retorica. Ognuno dice la sua, sembrando avere a portata di mano soluzioni e rimedi: inasprimento delle sanzioni contro gli ultrà che violino le regole, partite decisive giocate a porte chiuse, e via dicendo.
Il copione, ormai, lo conosciamo fin troppo bene: è più o meno lo stesso da quasi trent’anni, da quando, una sera di maggio del 1985, poco prima che si disputasse la finale di Coppa dei Campioni Juventus- Liverpool, trentanove persone persero la vita sugli spalti dello stadio Heysel di Bruxelles. Quello è stato il peccato originale. Da allora nulla è più stato come prima. Quella maledetta sera di maggio il calcio ha irrimediabilmente perso la sua purezza, il candore di quando il calcio, per chi lo ha sempre amato, era quello cantato da Francesco De Gregori in “La leva calcistica della classe ’68“.