MarginiC’è del muschio in Terza A – Diario di un professore

Non amo i libri sulla scuola che vanno per la maggiore. Specie quelli lamentosi degli insegnanti-scrittori o degli scrittori insegnanti (faccio un'eccezione per Registro di classe di Sandro Onofri...

Non amo i libri sulla scuola che vanno per la maggiore. Specie quelli lamentosi degli insegnanti-scrittori o degli scrittori insegnanti (faccio un’eccezione per Registro di classe di Sandro Onofri, un vero gioiello, incompiuto per la morte dell’autore, e troppo presto dimenticato). Non amo neppure i libri-(simil)verità dei giornalisti, sulla scuola, che spiegano come qualmente occorra tagliarla per valorizzarla: strano ossimoro. (I pedagogisti e/o politici li ho proscritti dai primi anni duemila: la vita è troppo breve e l’arte è lunghissima, ahimè).

Amo i diari, in generale. E soprattutto i diari delle persone comuni, che non si rassegnano all’oblio. In ambito scolastico, ricordo Dino Provenzal (Manuale del perfetto professore. Rocca San Casciano 1917 –che lessi anni fa,) e I miei ricordi d’insegnante, di Giulio Capirci, edizione Penne&Papiri, senza ISBN, Latina 1996. In genere sono gli editori indipendenti che si occupano della diaristica delle persone comuni, e spesso se ne trova tanta che non si considera propriamente letteratura, per la carenza di stile. Non è il caso del libro di Giancarlo Loffarelli, C’è del muschio in Terza A, Giancarlo Zedde, Torino 2014 perché l’autore riesce a precipitare dentro il racconto un ductus riflessivo, e auto-riflessivo, che produce un effetto di esemplarità da molti punti di vista.

Pensandoci bene non voglio fare una vera recensione.

Piuttosto vorrei dare qualche impressione di lettura.

Innanzitutto tornerei brevemente sul concetto di “postura”: da dove l’autore parla e assumendo quale ruolo. Loffarelli parla dall’interno della scuola, anzi più precisamente dall’interno di una scuola: l’Istituto Pacifici De Magistris di Sezze, Lt. E parla da insegnante, di storia e filosofia, che attraversa diaristicamente un anno scolastico. Il contesto è filtrato dalla vita di una classe di Terza Liceo (l’ultimo anno del Classico). L’autore incarna se stesso, nella veste di quell’habitus che gli è più familiare, e frequentando il mondo che gli è più familiare (oltre a quello del teatro, ma qui sembra farne epochè).

Secondo rilievo: l’atteggiamento di Loffarelli non è mai lamentoso. Non rappresenta un Cahier de doleance della scuola, e non perché, qui e là, egli non noti alcune criticità: ma perché traspare l’entusiasmo nell’esercitare questo mestiere, e – colpisce -, la gratificazione nel farlo. Loffarelli non è un ottimista, né un pessimista, e neppure un realista (in genere i pessimisti dicono di essere realisti): è un ermeneuta. E questo è il terzo rilievo: il testo è una fenomenologia ermeneutica della vita di un insegnante scolastico. Vi pare poco?

Poi ci sono le pratiche scolastiche: la verifica, l’interrogazione, il collegio docenti, le riunioni di classe, i colloqui con i genitori, la burocrazia… Magistrale la descrizione di un colloquio con il Preside (il Dirigente!) E poi, pratica delle pratiche, la lezione. Qui la «pratica» esplode e il contenuto si affaccia sul plesso vita -pensiero, e certamente le pagine sulle lezioni sono la vera esibizione dell’intimità messa a nudo dell’autore. In cattedra non si può incedere mascherati. 

La vita della classe è descritta attraverso gli occhi del professore. A volte sembra dotato di capacità psicoanalitiche, a volte sembra quasi un osservatore divertito, altre volte la partecipazione emotiva rileva.

Il Viaggio scolastico e il rapporto con un particolare alunno rappresentano i momenti più interessanti, dal punto di vista narrativo. La presenza assente di un etranger (estraneo, esterno, viaggiatore, Altro), nella classe e nella scuola, precipita (chimicamente) nella figura del viaggio, in cui, per metafora, avviene un ribaltamento dialettico: qual è il viaggiatore, qual è il viaggio?

La scrittura è sempre lucida e vivace,  e nel registro colloquiale si avverte la maestria del drammaturgo (l’altro lavoro di GiancarloLoffarelli).

L’autore dice di se di essere un ermeneuta. Certo, ma io direi che il debito maggiore , da un punto di vista filosofico, è il pensiero dialogico. Perché? Der Mensch wird angeredet, nur wer auszulegen weiß, versteht (Jacobi)

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