Ogni volta che si commemora una vittima di mafia provo ad immaginare la vita di quella persona se la mafia non gliel’avesse stroncata. Immagino tutti gli anni di vita che la mafia ha rubato a queste persone. A tutto ciò che avrebbero potuto fare. A tutti i viaggi da fare, emozioni da percepire, profumi da sentire, baci e carezze da dare, cose da “costruire” nella loro vita. Penso alla loro età attuale se del tritolo o delle pallottole non l’avessero inseguiti e se la mafia non fosse stata la loro ombra. Penso ai 55 anni di Giancarlo Siani, ai 66 anni di Peppino Impastato, agli 87 di Pio La Torre, ai 75 di Giovanni Falcone, ai 77 di don Pino Puglisi, ai 56 di don Peppe Diana, ai 74 di Paolo Borsellino.
Penso quindi a quel 19 luglio del 1992 quando il giudice Borsellino citofonava la madre in via D’Amelio, Palermo, per accompagnarla dal medico. Alla madre che sarebbe scesa e salita in auto. Alla sigaretta che Paolo avrebbe continuato a fumare, accesa un momento prima del tragico destino. Alle nuove inchieste che avrebbe messo in piedi. Ai suoi successi. Alla sua vita da ‘pensionato’. Al rapporto coi suoi figli e con sua moglie. A cosa avrebbe fatto dai suoi 52 anni ad oggi.
Cosa Nostra però decide. La ‘ndrangheta decide. La camorra, pure. A Paolo fu deciso che alle 16.58 doveva dire addio a tutto il resto della sua vita terrena che l’aspettava. A tutti i suoi sogni, a tutti i suoi progetti.
Alle 16.58 di domani, 19 luglio, fermati un attimo e prova ad immaginare il resto della vita di Paolo e di tutti quelli che ci hanno lasciato. Prova a pensare a come Paolo e gli altri avrebbero loro stessi immaginato il loro futuro. Un futuro, di certo, senza boss e palazzinari, senza tritolo, senza stragi e atti terroristici, senza vendette e “uomini d’onore”. Un futuro, quindi, che avevano iniziato a costruire. Perché ci credevano.