Nel sonnolento agosto da spiaggia, imperversa sui giornali il dibattito sulla modernizzazione della macchina pubblica del Paese, a partire dalla fine del bicameralismo perfetto, così da rendere il processo di scrittura e approvazione delle leggi più spedito e rispondente alle esigenze di una società che corre. Molto si potrebbe dire sul fatto che in Italia abbiamo sin troppe leggi e che il punto probabilmente non è scriverne di più e più celermente ma in numero minore e più chiare. La prendo alla lontana, tuttavia: i tempi sono ancora dilatati. E parto da un passaggio di un recente pezzo di Gian Antonio Stella sul Corriere della Sera, nel quale, mentre si accarezza molto poco dolcemente la schiena dei funzionari delle assemblee parlamentari, si legge che “la progressiva decadenza di una classe politica sempre più mediocre […] ha spalancato spazi enormi agli apparati di supporto […] spesso chiamati a rimediare alle carenze di questo o quell’altro eletto del popolo”, aggiungendo che “gli italiani devono essere grati a tanti funzionari e dirigenti perbene e preparatissimi che in questi anni hanno accudito uomini di governo talora incapaci, arginandone gli errori. Chapeau. E grazie”. Prego. Continua Stella ricordando che “troppi [burocrati] si sono impossessati di un potere immenso dando ragione a Max Weber: «Ogni burocrazia si adopera per rafforzare la superiorità della sua posizione mantenendo segrete le sue informazioni e le sue intenzioni». Al punto” ricorda Stella “che mesi fa Pietro Ichino si levò in Senato sventolando una legge in votazione: «Questo è un testo letteralmente illeggibile. Non è solo incomprensibile per i milioni e milioni di cittadini chiamati ad applicarlo, ma illeggibile anche per gli addetti ai lavori, per gli esperti di diritto del lavoro e di diritto amministrativo. È illeggibile per noi stessi legislatori che lo stiamo discutendo (…) Credo che in Aula, in questo momento, non ci sia una sola persona in grado di dirci cosa voglia dire». Risultato: il burocrate estensore di quella legge è l’unico in grado di interpretarla. Di quella legge è dunque il padrone. Non va così, in una democrazia sana”.
Non fa una piega, vero? Eppure, per chiunque mastichi un po’ di amministrazione e dintorni, è evidente che Stella, uno dei giornalisti a mio modo più bravi nel tradurre le astruserie burocratiche in linguaggio comprensibile a tutti, pecca – anche lui – di una visione meccanicistica – fordista, direi – delle dinamiche pubbliche e di una eccessiva semplificazione che non aiuta a capire quel che accade realmente. Ad esempio, qual è il nesso nel discorso fra gli specialisti funzionari delle alule parlamentari e i generalisti dirigenti dei ministeri? Chi è l’onnipotente burocrate (il “padrone”) che ha scritto quel testo di legge? Un funzionario di qualche ministero? Un collaboratore di qualche ministro? Un funzionario parlamentare? Partiamo da un punto fermo: in Italia vige il principio di separazione fra politica e amministrazione. La prima fissa gli obiettivi generali, la seconda li implementa. Sulla carta, almeno: nella pratica è evidente che se le modalità di messa in atto di una politica pubblica hanno un che di politico, non di rado il politico entra nelle scelte amministrativo-gestionali, in primis con le nomine dei dirigenti, i quali, spesso, non si sottraggono ad inopportuni abbracci. Ma ci sta: un sistema sano sa come gestire debordamenti fisiologici. E se è vero che l’impreparazione di base di molte delle nuove leve della politica post primi anni novanta ha accresciuto il potere della burocrazia “che resta”, è altrettanto vero che in momenti di tempesta quei maledetti burocrati una mano l’hanno data a tenere dritto il timone. Eseguendo, certo, per dirla col ruvido Dario Nardella, renziano di ferro, ma dicendo la loro, consigliando, ammonendo, offrendo alternative. E, ancora, se i cosiddetti Mandarini di Stato sono accusati di tenere per sé segreti e misteri dell’ars administrationis, non va dimenticato che sono i ministri per primi a fare a gara per assicurarsi nei gabinetti e negli uffici legislativi magistrati amministrativi e contabili i quali, ricordiamolo, sono chiamati fiduciariamente e, dunque, potrebbero essere tranquillamente rimandati a casa se non più graditi. Detto questo, arriviamo al punto di Stella: ma chi diavolo le scrive le leggi in questo Paese?
La Costituzione è molto chiara sul punto: la funzione legislativa è esercitata collettivamente dalle due Camere (art. 70, Cost.). Fatta salva la prospettata modifica costituzionale, che sembrerebbe complicare piuttosto le cose, ormai anche i sassi sanno che l’attività legislativa si è di fatto spostata sul versante del Governo: non si contano le prese di posizione di accademici, parlamentari e persino del Capo dello Stato sull’uso eccessivo della decretazione d’urgenza, mentre la complessità di molte materie porta ad un elevato utilizzo della legislazione delegata, riducendo il Parlamento a luogo di ratifica e segnandone una profonda involuzione, relegandolo “in una posizione sempre più marginale sia nella fase dell’iniziativa, sia in quella più propriamente deliberativa delle leggi”. Positivo o negativo, è un fenomeno che si è imposto di fatto: se aggiungiamo la prevalenza assoluta dei disegni di legge di iniziativa governativa fra quei progetti che vedono la luce, è indiscutibile che sia sempre più l’Esecutivo a gestire la leva legislativa. E cosa fa il Governo quando deve preparare le proprie proposte di legge? La palla passa ai Ministri, i quali, evidentemente, si rivolgono alla struttura, chiedendo ai propri Uffici Legislativi e Segreterie Tecniche di raccogliere quegli elementi utili dagli uffici competenti per materia al fine di elaborare bozze di proposte normative che, tradotte in articoli e commi che rimandano ad altri commi ed articoli, approdano, infine, in Parlamento. Se a questa ordinaria attività aggiungiamo l’abbordaggio emendativo ai vari “treni” legislativi in Parlamento e il vero e proprio assalto alla diligenza da parte dei parlamentari amabilmente sollecitati da lobbies del più vario genere, la frittata è fatta. La mia replica a Stella e Ichino, allora, è la seguente: ma i gruppi parlamentari, con i propri Uffici Legislativi, i propri funzionari ed i propri esperti, cosa fanno? Attendono sereni che arrivi loro da parte dei palazzi romani la pietanza precotta per riscaldarla poi nelle cucine di Montecitorio e Palazzo Madama? Un po’ comodo lamentarsi che non piaccia il piatto servito quando si rinuncia persino all’ordinazione!
Appare insomma ben curioso che Parlamento e stampa insorgano offesi dell’invadenza del solito burocrate che scrive, quasi ubriaco di potere, quelle norme che lo stesso Parlamento, supino, attende di ratificare, come fosse in essere una cinghia di comando diretta tra i sacerdoti custodi dell’oscuro sapere degli uffici ministeriali e le auree aule parlamentari, ridotte in catene. Se il Parlamento di fatto abdica – perché composto di nominati, perché ansioso sulla propria futura rielezione, perché fedele alla maggioranza di Governo, non è questa la sede per domandarselo – alla propria funzione costituzionale di Legislatore e la rimette in toto all’Esecutivo, è davvero bizzarro che le responsabilità per una democrazia in cui rischiano di saltare pesi e contrappesi, ruoli e funzioni, ricadano – esclusivamente – sul ceto burocratico, il quale, ove richiesto, non può che rispondere alle richieste del vertice politico. Insomma, se non è francamente credibile addossare ai funzionari parlamentari la colpa di non “sorvegliare” a sufficienza la politica al lavoro, allo stesso modo non ha senso mettere all’indice la burocrazia ministeriale perché produce quegli elementi che, rimaneggiati dall’esclusivo club dei magistrati amministrativi e contabili che presidiano gli uffici di diretta collaborazione dei dicasteri, approdano spesso inintelligibili alle Camere. In altre parole: se la tecnica legislativa è ormai incartata su sé stessa, riproducendo testi normativi che un comune mortale – e anche più di un addetto ai lavori – non è in grado di capire, spetta al Parlamento, titolare di quella funzione, indicare nuovi criteri di drafting, esigerne il rispetto dal Governo, applicarli esso stesso. Se questo non accade, è perché, come ricorda Luca Ricolfi, la politica attraversa una crisi cognitiva profonda: “nessuno costruisce un aereo, o un’automobile, o un computer, cercando di mettere d’accordo tutti i produttori che ambiscono a fornirne parti e componenti. Eppure è questa la pretesa della politica in Italia. Ed è questa, probabilmente, la ragione per cui la stragrande maggioranza degli aerei, delle automobili e dei computer funzionano, mentre le nostre leggi di riforma non funzionano quasi mai”.
Un pasticciaccio brutto, senza dubbio, che ha tante manifestazioni, l’ultima delle quali la vicenda che ha visto protagonista il Commissario alla spending review Cottarelli (ricordate il recente “stia sereno”?). Nodi che si potrà tentare di sciogliere solo se gli attori del sistema, ognuno nel rispetto reciproco della sfera dei poteri e delle competenze loro assegnati dalla Costituzione, sapranno rimettersi in carreggiata, riconoscendo la piena legittimità dei rispettivi ruoli. Perché è indubbio che il primato della politica sia il fondamento del principio democratico della Repubblica: ma è altrettanto vero che non può reggersi se ciascuno dei protagonisti pubblici, chiaramente e senza infingimenti, non si assume le proprie responsabilità, interagendo su una linea di confine fra politica e amministrazione che non può che essere mobile e mutevole, ma che deve restare rispettosa della Costituzione. E perché se, in una società che è un pelino più complessa della polis ateniese, chi si elegge non legge le leggi che approva e pretende, per dirla con Dario Di Vico, che le burocrazie si occupino del mero disbrigo delle pratiche inevase, c’è davvero poco da star sereni.