MarginiValutazione e meritocrazia nella scuola, una voce critica

In questi giorni, è molto presente nel dibattito pubblico la proposta da parte del governo Renzi di una radicale riforma della scuola, che va sotto il titolo (o hastag, come oggi usa dire) di #lab...

In questi giorni, è molto presente nel dibattito pubblico la proposta da parte del governo Renzi di una radicale riforma della scuola, che va sotto il titolo (o hastag, come oggi usa dire) di #labuonascuola. E’ diventato di dominio comune il concetto di valutazione del merito, e sembra un concetto talmente ovvio e giusto da non essere neppure soggetto ad una analisi problematica, per vedere cosa si nasconda nelle sue declinazioni concrete. Valutare è da sempre ciò che si fa nella scuola, si dice, e dunque perché non estendere questa pratica anche agli insegnanti? Apparentemente il discorso non fa una piega. Il problema sorge quando si va a cercare di chiarire cosa si intenda per valutazione e cosa per merito. Va da sé, infatti, anche che questi due termini mutino a seconda del contesto d’uso. Se per esempio io debbo valutare il merito di un pilota, utilizzerò il criterio di performance: tanto più è vincente, tanto più vale, e dunque, secondo le leggi del mercato, deve essere premiato. Se io debbo valutare un libro, la cosa si complica. Non posso semplicemente misurare la quantità di copie vendute. Un best-seller non è necessariamente un capolavoro. Non è sempre vero, ma basta una sola eccezione a far saltare la presunta “scientificità” della eventuale regola. Ma se io debbo valutare un insegnante, quali criteri utilizzerò? Economici, psicologici, statistici, prestazionali, di customer satisfaction? Mutatis mutandis è lo stesso problema che abbiamo noi insegnanti a valutare gli alunni. Teoricamente dovremmo valutare le competenze, non più le conoscenze. Ma il punto è che il concetto di competenza nasce in un contesto aziendale, e mal si adatta ad un contesto scolastico, salvo, ovviamente, non considerare sic et simpliciter la scuola come una azienda. Se si dice, come in effetti si dice, “ma è già così”, si può obiettare: ok, è una azienda, ma che tipo di azienda? E le domande potrebbero moltiplicarsi, così come le risposte.

Ecco, l’idea che mi sto facendo è che nel discorso pubblico si tenda a non dare adeguato rilievo a questo tipo di domande, dando per scontata l’egemonia del criterio economico. I paradigma assolutamente totalitario nel discorso pubblico appare questo. Esistono tuttavia critiche a questo paradigma, certo non appaiono spessissimo sui giornali e nei normali circuiti di formazione dell’opinione pubblica. Ma se si misurasse (appunto) il progresso di una discussione in base alla semplice ripetizione di un punto di vista pubblicamente egemone, il pensiero, lo spirito critico, «l’uso pubblico della ragione» (Kant) non avrebbero più modo di esercitarsi, anche eventualmente per risolversi ultimamente nell’accettazione riflessa di quello stesso punto di vista.

La libertà di opinione di cui ho sempre goduto in questo blog – al quale sono stato invitato dall’ex direttore Marco Alfieri, che colgo l’accasione per  salutare – , e l’assoluta apertura che garantisce un autentico pensiero liberale – di cui Linkiesta.it rappresenta uno dei felici esempi in Italia, mi permettono di pensare che anche il presente punto di vista possa servire per farsi un’opinione ed eventualmente elevare il tono del dibattito.

Approfitto quindi dell’amicizia di Valeria di Pinto, per allegare una sua intervista a Roberto Ciccarelli, apparsa qualche giorno fa su un altro giornale on line, http://www.roars.it/online/valutare-e-punire-nella-scuola-di-matteo-renzi/ (una versione abbreviata è uscita su il Manifesto del 3 novembre) intervista che in gran parte condivido anche nel merito, e che invito a leggere con attenzione.

Valeria di Pinto insegna filosofia nella Università di Napoli Federico II, e ha pubblicato nel 2012 Valutare e Punire, per la casa editrice Cronopio.

Roberto Ciccarelli: Qual è il ruolo della valutazione nella «buona scuola» di Renzi?

Valeria Pinto: È il cuore della riforma di Renzi. Il suo ruolo emerge quando si parla del «piano di miglioramento», un concetto ingannevole della nuova retorica pubblica, come la parola «qualità» cui spesso si accompagna. Si tratta di un tipico strumento di controllo del management per obiettivi. Quando si parla dell’aggiornamento e della formazione continua si chiarisce che i docenti devono raggiungere gli obiettivi «preposti». Preposti da chi? Chi decide? Sempre più questi obiettivi coincidono con i quelli dei cosiddetti «portatori di interessi», interessi che, alla fine, sono solo interessi di classe, gli unici dotati della forza per imporsi su altri. Con buona pace della libertà di insegnamento, la riforma neoliberale lo converte in un servizio di formazione per le aziende. Anche nell’università la valutazione costituisce ormai l’architrave istituzionale e il nuovo luogo di potere: una concentrazione mai vista prima. Essa è infatti una forma di governo, la forma di governo dello «evaluative State», lo Stato della valutazione. Si chiama «governing by number», governo con i numeri o governo a distanza. A dispetto della parvenza democratica – siamo consultati su tutto ormai, specie online, ma a contare sono solo le opinioni che danno copertura a scelte già fatte – è un governo di controllo capillare teso a «cambiare le menti», come disse Monti premier, di fatto citando la Thatcher.

Altro aspetto della riforma è quello del controllo. Anche questo rientra nella valutazione?

Certo. Sono ricorrenti i concetti di ispezione e rendicontazione. C’è l’accentramento del potere nelle mani del preside-manager e del consiglio di amministrazione, l’annullamento degli organismi intermedi di rappresentanza. Si premia la disponibilità allo sfruttamento, sotto l’etichetta «produttività», formalizzando un aumento dell’orario di lavoro che arriva anche a raddoppiare. C’è il «registro nazionale dei docenti», dove questi saranno tracciati in tutte le loro attività, costantemente sotto controllo, per «individuare coloro che meglio rispondono al piano di miglioramento preposto». In tutto questo forse una novità c’è: la violenza, la nettezza, con cui emerge il disegno di spossessamento. Questo è avvenuto anche nell’università, dove forse solo ora qualcuno inizia a capire cosa significa valutazione: un potentissimo strumento di centralizzazione del potere e di spossessamento di chi è impegnato sul campo.

Che cos’è la «meritocrazia» che Renzi vuole introdurre nella scuola?

Quando è stata istituita, l’agenzia di valutazione Anvur è stata giustificata con l’esigenza di «premiare merito e qualità». Chi potrebbe opporsi a questo? Il problema è, credo, capire la cornice ideologica che sostiene questa apparente evidenza. Ciò «che premia il merito facilita il processo di equità sociale. Il merito non è il privilegio dei ricchi, ma la carta che hanno i poveri per riscattarsi» disse Fabio Mussi da ministro del centrosinistra nel 2006. Si deve a lui, che già parlava di «equità», l’ideazione dell’Anvur. In realtà, il sistema del merito emana, rafforzandolo, dal riconoscimento della giustizia e dell’evidenza dell’ordine sociale esistente. Rendendo le diseguaglianze accettabili su basi razionali e eticamente legittime, la meritocrazia risponde all’esigenza di mantenere fermo questo ordine. Essa non combatte le diseguaglianze, ma si preoccupa di legittimarle. In questa cornice l’istruzione è l’arma per la perfetta razionalizzazione dell’esclusione. Il modello che si prospetta per la scuola è questo.

Perché l’istruzione è stata bombardata da riforme dalla fine degli anni Ottanta ad oggi?

Il momento centrale per le politiche dell’istruzione è il Processo di Bologna nel 1999, definito oggi da Žižek «un attacco concertato a ciò che Kant chiamava l’uso pubblico della ragione». Il principio è lo stesso che vediamo all’opera nel progetto renziano: educare al problem-solving, subordinare l’istruzione alla produzione di un sapere competente e utile. L’attuale riforma della scuola è in assoluta continuità con i progetti sviluppati fin dalla bozza Martinotti, alla base della riforma Berlinguer dell’università. Evidentemente alla fine ha fatto breccia l’idea che l’istruzione garantita dallo Stato sia una «industria socialista», secondo la celebre espressione di Milton Friedman.

Perché, quando si parla di «merito», le risposte della scuola sono sempre difensive?

La forza di questo discorso intimidisce e rincoglionisce, come disse Tullio Gregory dell’Anvur a Il Manifesto. Si teme di apparire estremi, ideologici, conservatori. L’immagine di discredito del nostro sistema formativo, oggetto di diffuse campagne stampa, è stata interiorizzata, mentre la «cultura della valutazione» – nel migliore dei casi pura cultura neoliberale, per lo più semplice paccottiglia – ha cucinato a fuoco lento la nostra coscienza critica. È come la rana bollita di Chomsky, quella che all’inizio sguazza felice nell’acqua tiepida. Poi, mentre la temperatura sale, si sente un po’ fiacca ma non se ne dà pensiero, sdrammatizza. Quando l’acqua diventa calda davvero magari sì, si mette sulla difensiva, ma non serve niente, in un attimo è cotta. Ecco che cose che ci avrebbero fatto orrore solo qualche decennio fa sono oggi proposte e accettate come soluzioni «semplici e concrete», secondo una «pragmatica generale» che è la nuova cifra del tempo.

Il governo rilancia il ruolo dei privati nella scuola. Si prospetta una privatizzazione oppure si vuole gestire la scuola – e in generale il pubblico – come se fossero delle aziende?

Le due cose non sono mai state in alternativa: si tratta di formare nuove soggettività flessibili conformi alle regole del mercato. Quello determinato dalla valutazione è un «quasi-mercato», l’analogo del sistema informativo dei prezzi. Sorprendentemente ancora qualcuno si ostina a non vedere il nesso, peraltro dichiarato (basta sfogliare, ad esempio, il recente libro della Fondazione Agnelli La valutazione della scuola).

Qual è l’idea di fondo di questa strategia?

La cosiddetta «school choice». L’intento è fornire alle famiglie le informazioni per scegliere come investire il proprio capitale (in primis capitale umano) e per rendersi quindi responsabili delle proprie scelte ovvero del proprio destino. La conseguenza logica è il modello «voucher» per rendere le famiglie «libere» di scegliere la migliore scuola per i loro figli, nella sostanziale liquidazione della scuola pubblica. Si parte dall’assunto che «le risorse pubbliche non saranno mai sufficienti», presentato come un’evidenza naturale, nella neutralizzazione di qualunque interrogativo sul perché, e si rende semplice buon senso l’ingresso dei privati. Ecco che la finanziarizzazione del sapere diventa qualcosa di molto tangibile.

Tutto questo è presente nella «buona scuola» di Renzi?

Nel «patto educativo» si parla di «finanza buona», di «obbligazioni ad impatto sociale», i «social impact bond» già utilizzati in Gran Bretagna e negli Stati Uniti. La scuola è sempre più risucchiata in un universo di concetti, valori, criteri che ha nel mercato il suo unico riferimento. Questo movimento è cominciato con la trasformazione di sufficienze e insufficienze scolastiche in crediti e debiti. La logica privatistica è funzionale all’ingresso dei privati, ad affari in carne ed ossa, fino al grande business della formazione.

Quali possono essere gli ostacoli che questa ipotetica riforma potrà incontrare sul suo cammino?

Come si farà, ad esempio, nella scuola dell’obbligo ad affidare degli alunni a insegnanti riconosciutamente di serie B o a istituti trasparentemente di serie C? Di fronte a risultati negativi degli allievi, le famiglie dovranno prepararsi a una class action? In un sistema dove l’istruzione è un diritto sancito dalla costituzione, è legittimo che qualcuno abbia insegnanti «eccellenti» e altri abbiano invece insegnanti «screditati»? Ma anche questi scogli saranno superati, perché a questo punto gli insegnanti mal valutati – per qualunque motivo – non potranno che essere allontanati… al momento si parla di mobilità, ma così come si parla di «superare il grigiore dei trattamenti indifferenziati» avendo di mira il contratto collettivo, si potrà ben chiamare «resi finalmente mobili» gli insegnanti accompagnati alla porta.

Una riforma che premia il «merito» ed è basata sulla valutazione è stata già introdotta nell’università dal 2011. Qual è il bilancio?

Quello atteso da chi avesse avuto la pazienza di guardare dove queste pratiche avevano già mostrato le proprie vere finalità: tagli, estinzione dei processi democratici, una ricerca addomesticata e di respiro sempre più corto, vincolata a programmi e obiettivi funzionali agli interessi delle oligarchie imprenditoriali globali e alla loro legittimazione culturale. Poi un po’ di ridefinizione dei rapporti di potere: sostanzialmente una rilegittimazione dei vecchi poteri sotto forma di nuove «tecno-baronie». E soprattutto: nessuna evidenza – nessuna evidenza indipendente – che la valutazione abbia migliorato la ricerca e l’istruzione. D’altra parte non è concepita per questo.

A differenza della riforma Gelmini, Renzi oggi dice di sollecitare il coinvolgimento della scuola. La sua è un’apertura effettiva al dialogo?

Stiamo parlando di processi che sollecitano sempre una «spontanea» adesione a quanto richiesto dall’alto. Quello di Renzi non fa eccezione perché fa appello alla convinta partecipazione di coloro che vi sono sottoposti. È sulla base di una consapevolezza indebolita, fiaccata (la rana bollita), che si rende possibile quello che viene definito «patto sulla scuola», espressione che ricorda il patto che Berlusconi diceva di avere siglato con gli italiani. Lo Stato valutativo funziona sempre solo con la sostanziale complicità di coloro che vi sono sottoposti. Non a caso c’è chi parla di «servitù volontaria». A me pare più rispondente l’idea foucaultiana di governamentalità: produrre soggettività autonomamente conformi alle procedure attese. Alla fine, siamo davanti a una macchina potentissima, a dispositivi globali di trasformazione. Bisognerebbe attaccarli direttamente, attaccare da ogni lato.

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