Nel 2014 il PIL tornerà a diminuire. La disoccupazione e il deficit pubblico sono in aumento. Il governo ha solo una risposta: l’austerità.
Nella caricatura del vignettista ‘Corax’, il premier serbo intento a derubare un pensionato costretto a frugare nei cassonetti dell’immondizia.
(L’articolo è stato pubblicato su Rassegna Est) La Serbia è nuovamente in recessione. Quest’anno il Pil, secondo l’Istituto economico, rispettato centro di ricerca belgradese, potrebbe calare dell’1%. La flessione è legata alla congiuntura complessiva europea e potrebbe durare anche negli anni successivi, riferisce ancora l’Istituto economico, le cui proiezioni si appaiano a quelle del Fondo monetario internazionale (Fmi). Anch’esso dà la Serbia in recessione, stimando in mezzo punto il calo del Pil nel 2014. Il Fmi, tuttavia, non ha ancora ritoccato le previsioni per il 2015, continuando a prevedere una crescita dall’1%.
Nel maggio del 2013 l’ex primo ministro Ivica Dačić aveva dichiarato, trionfante, che il paese aveva superato la crisi. L’idillio, a ben vedere, è durato poco. La Serbia si trova nuovamente al punto di partenza, con una disoccupazione tra le più elevate della regione (21,6% nel 2014, secondo il FMI) e il 24,6% della popolazione sotto la soglia di povertà (dato registrato dall’Ufficio statistico serbo). La situazione, sulla quale ha influito solo parzialmente il disastro delle alluvioni del maggio scorso, ha inoltre aggravato l’equilibrio di bilancio. Quest’anno il deficit potrebbe salire al 9% (nel 2013 quello previsto era stato del 4,7% e l’effettivo del 5,5%).
Di fronte a questa situazione, le idee del governo eletto plebiscitariamente in primavera, non differiscono sensibilmente da quelle ormai adottate dalla maggioranza degli esecutivi europei: occorre stringere la cinghia, diminuire lo stato sociale e comprimere la spesa pubblica. E questo malgrado Vučić continui a giudicare “prioritario” l’intervento sui ceti sociali più svantaggiati.
Presto il parlamento dovrebbe discutere un progetto di riforma del welfare, che taglierebbe fondi per le pensioni, assicurazioni di disabilità, sanità nazionale, assistenza ai disoccupati e al personale militare. I salari dei dipendenti pubblici superiori a 25.000 dinari al mese (210 euro circa) potrebbero essere decurtati del 10%.
Misure che “potrebbero sembrare draconiane”, segnala Andrew MacDowall sul Financial Times, “ma che in realtà sono limitate e temporanee, e potrebbero non essere abbastanza convincenti da rassicurare i mercati. La Serbia spende l’11% del proprio PIL in salari ai dipendenti pubblici, e il 14% in pensioni. Diminuire queste due voci di spesa sembrerebbe logico”. Ma Vucic potrebbe avere delle difficoltà a portare avanti queste riforme, “vista la difficoltà di imporre un cambiamento a una società in cui molti guardano ancora al passato comunista con nostalgia”. Il giornalista si riferisce al peso dell’assistenzialismo e all’idea che lo stato pensi a tutto.
Eppure Belgrado avrebbe le risorse per tirarsi fuori dal pantano. Un rapporto pubblicato recentemente dalla Banca mondiale, dal titolo Rebalancing Serbia’s Economy, sottolinea che nell’epoca post-jugoslava la Serbia si è basata eccessivamente sul proprio (insufficiente) mercato interno, dando lavoro a troppe persone nel pubblico impiego (un milione, su una forza lavoro di 4,6). Ma Belgrado, registra la Banca mondiale, avrebbe una risorsa fondamentale nell’export. Tra i settori che storicamente si sono dimostrati competitivi figurano quelli della produzione agricola, delle telecomunicazioni e dei trasporti.
Alla Serbia servono riforme strutturali, insomma. Ma più ancora, serve il tempo. E Vučić, in questo momento, non ne ha a disposizione. La priorità è reperire liquidità. Per far questo, il governo dovrebbe firmare entro la fine dell’anno un nuovo accordo con il Fmi, per un miliardo di dollari. Ed è qui che si fa sentire, ancora una volta, la vicinanza di Mosca. In due anni, 2013 e 2014, la Russia ha concesso un prestito di un miliardo e trecento milioni di dollari. E si parla inoltre di espandere la lista di prodotti inseriti nell’accordo di libero scambio tra i due paesi. Da quando l’Ue ha approvato le sanzioni nei confronti della Russia, infine, le esportazioni di prodotti agricoli dalla Serbia verso i “fratelli ortodossi” sono aumentate di 56 volte, per ammissione del viceministro Ivica Dačić. Quello con la Russia, per Belgrado, è un partenariato ineluttabile.