Il Maxxi ha raccolto 600.000 euro al gala della mostra “Bellissima” sull’Alta Moda italiana. Ma cosa farà con questi soldi il museo nazionale d’arte contemporanea di Roma?
Su Twitter il Maxxi mi ha risposto che serviranno a comprare nuove opere, ma con 150 mila in più Celant sta preparando la mostra più importante di Expo, la già criticatissima “Arts & Foods”. E con molto meno di seicento mila, perfino Vincenzo Trione promette di fare un padiglione storico tra sei mesi alla Biennale di Venezia.
Mi chiedo insomma se non è forse più urgente per il Maxxi pensare a rappresentare e istituzionalizzare l’arte italiana in vista di Expo, piuttosto che comprare opere. Opere di chi poi? il Maxxi non ha specificato.
L’arte italiana non è stata istituzionalizzata dal secondo dopoguerra: non era questa la missione del Maxxi? Classificare i movimenti dal 1945 ad oggi, elencarne gli artisti?
Finora le retrospettive del Maxxi hanno consacrato in disordine De Dominicis, Boetti e altri come Penone, Pistoletto, Mauri, Kounellis che figurano nella collezione permanente. Risultato? Il pubblico non sa chi viene prima, né da quale scuola di pensiero vengano questi artisti.
Non solo: nessuna delle mostre del Maxxi è mai uscita dall’Italia, nessuna è mai andata a Parigi, Londra, New York. Non tanto per un fatto di prestigio. La circolazione delle opere oggi è la vera sfida culturale dell’arte se vuole avere un riconoscimento (e un tornaconto) globale. Ecco perché, oggi, una mostra che non viaggia significa, per l’arte italiana, avere zero impatto sul mercato internazionale. Non lasciamo che Sgarbi sia l’unico a capirlo.
Ma veniamo ai fatti: quanti collezionisti internazionali hanno comprato un De Dominicis dopo la retrospettiva del Maxxi? Aspettiamo la risposta.
Internazionalizzare l’arte italiana: questa è la missione di un museo d’arte contemporanea, per lo più se come il Maxxi il museo è addirittura nazionale e pubblico. Ma sembra proprio che il Maxxi voglia lasciare questa prerogativa alle fondazioni private: per l’Expo, le fondazioni Prada, Trussardi e Fendi inaugureranno (o rilanceranno) nuovi punti di riferimento per l’arte, sperando di cambiare le carte in tavola quanto la Fondation Vuitton a Parigi aperta quest’autunno.
La fondazione Trussardi ha appena annunciato il programma del curatore Gioni libero di spaziare tra gli artisti per lo più non italiani. Dopo tutto, le fondazioni private non hanno vincoli rappresentativi ma, se nemmeno i musei nazionali si occupano più di strutturare l’arte italiana, quanto potrà mai valere un Burri di fronte a un Rauschenberg?
Per il centenario che cade anche questo nel 2015, la fondazione Burri – che dipende ora dal Mibact – ha ottenuto per l’anno prossimo una grande retrospettiva su Burri, il precursore della Pop Art italiana, al Guggenheim di New York. Per farci un’idea, l’ultima personale dedicata a un Italiano al Guggenheim di New York era su Cattelan.
Comunque, perché la mostra di Burri al Guggenheim profitti all’Italia, il Maxxi dovrebbe per lo meno riconoscere il movimento iniziato da Burri. Sennò il risultato sarà più o meno come se avessimo estrapolato Balla dal Futurismo.
Problema: Burri è legato a Roma dove ha dato inizio alla non meglio identificata “Scuola di Piazza del Popolo”, un movimento mai legittimato seppur precedente all’Arte Povera. La piazza del Popolo a Roma è il polo che raggruppa l’Accademia di Belle Arti di Roma dove si formano Fioroni, Kounellis e Pascali e varie gallerie storiche sempre in zona, fra cui in primis quella di Plinio de Martiis, “La Tartaruga”.
Come farà quindi lo Stato italiano a ricollegare Burri agli artisti finora riconosciuti?
La scuola romana, come tutti i movimenti artistici, aveva anche un suo rappresentante teorico, Calvesi che ha diretto la GNAM e la Fondazione Burri prima di essere recentemente sostituito da Bruno Corà. Insieme a Burri nel gruppo romano v’era Rotella seguiti (in ordine di adesione) da Kounellis, Schifano, Festa, Angeli, Lombardo, Mambor, Tacchi, Ceroli, Pascali, Mochetti e infine De Dominicis che però è a cavallo con il Post-Moderno che sfocerà nel 1979 nella Transavanguardia di Bonito Oliva che decreta la fine delle classificazioni e delle gerarchie: per gli artisti non c’è più l’obbligo di essere innovatori.
Successivamente e parallelamente alla scuola romana è nata quindi l’Arte Povera con la galleria Sperone a Torino finanziata dalla Sonnabend arrivata dall’America, e teorizzata dall’allora giovane Celant.
Ileana Sonnabend è per la Pop Art americana quello che Peggy Guggenheim era per gli Espressionisti Astratti (Pollock etc.). Molti sanno che parte della collezione Sonnabend morta nel 2007 è andata a Gagosian, ma pochi invece sanno che l’Arte Povera nasce a Torino solo dopo e a causa dello scarso successo della Sonnabend con la scuola romana: Plinio De Martiis infatti rifiutò l’accordo commerciale con la Sonnabend che avrebbe subordinato l’avanguardia europea alla Pop Art americana.
Questo rifiuto romano è fondamentale. Le cose andarono diversamente in Francia: una volta giunti in America, Restany il teorico francese dei Nouveaux Réalistes si rese conto troppo tardi delle conseguenze squalificanti del patto (cominciato a Parigi) con l’allora coppia Castelli-Sonnabend.
E così la scuola romana è l’unica a poter provare che la Pop Art americana aveva precedenti storici in Italia, visto anche che l’Arte Povera nasce dopo: nel 1963 c’è la prima mostra di Pistoletto da Sperone e nel 1967 la prima mostra intitolata Arte Povera su Flashart da Celant.
Purtroppo oggi esiste un veto politico sulla scuola romana, anche se prima o poi la centralità del gruppo romano nella storia dell’arte dovrà per forza venir fuori. Intanto in tutti gli appuntamenti culturali italiani ufficiali, dal summit europeo alla Venaria di Torino al concorso artistico della BCE, non vengono ufficializzati che artisti del Nord Italia: da Pistoletto a Penone fino a Cattelan. È un caso? Lo Stato Italiano vuole forse decretare che l’Arte Povera è superiore alla scuola iniziata da Burri?
Mettiamo che l’Arte Povera sia davvero superiore alla Pop Art romana, è forse normale non si sappia niente oggi sulla scuola artistica in cui si sono formati anche artisti americani come Cy Twombly?
Che la scuola torinese sia messa oggi in primo piano non è un problema, è soltanto una delle tante scelte ufficiali. Ma che questa scelta includa addirittura di occultare la centralità di Roma, che è stata nel dopoguerra l’indiscutibile culla della cultura italiana in cui, non a caso nello stesso periodo, Cinecittà inventava la Dolce Vita dopo il Neorealismo, sarebbe una clamorosa falsificazione storica che gli storici devono denunciare prima del fatidico 2015.
(scritto da Raja El Fani)