CineteatroraMi hanno preso la vita: il fuoco perenne di Elettra

Su una piattaforma di terreno prosciugato, Elettra va a passi furiosi alternando grida e mutismo indotto dalla costrizione del dolore. Si china, si insudicia la veste e i suoi capelli sono vittime ...

Su una piattaforma di terreno prosciugato, Elettra va a passi furiosi alternando grida e mutismo indotto dalla costrizione del dolore. Si china, si insudicia la veste e i suoi capelli sono vittime dell’incuria quanto l’esilio cui si autocondanna dopo il tradimento mortale della madre Clitennestra e del suo secondo sposo Egisto. Agamennone, sovrano ucciso in nome del possesso di un trono, è il padre in attesa del giudizio di vendetta della stirpe devota. Nulla più di questa centralità sdoppiata tra il vuoto di una morte indegna e l’intento di risanare memoria e onore dalla corruzione che ha ucciso senza vergogna piegano il fisico già provato e lo spirito alto, rabbioso di Elettra.

Nell’adattamento da Sofocle di Frank McGuinness, la messinscena in cartellone all’Old Vic di Londra ha per guerriera indomita Kristin Scott Thomas: un concentrato di furia e grazia contagiose, una vetta sul coro che le rinnova le conseguenze del suo patire. L’assenza del fratello Oreste e il suo ritorno, dopo la falsa notizia di morte, dilatano il tempo di gravitazione della pena attorno a un’umanità isolata e non a caso chiusa entro i confini circolari di una scena sormontata da un tronco arido e da tre gradoni per l’ingresso principale.

Vista dall’alto, e con la fatica di una lingua sciolta nel metro che si respira solenne e altero, la corrente che vibra in Scott Thomas è di una Elettra inquieta, come soltanto l’aliena combattente sa essere. Sua una voce profonda dai rari picchi isterici calcolati, l’occhio fisso sulle serve capaci di declinare al meglio un coro osservatore del destino, come bilance oscillanti tra l’urlo orfano della padrona e la sua protezione.

Meno incisive, invece, le presenze dei forse troppo giovani Oreste e Crisotemide, laddove il calco della protagonista fissa su di loro l’umore arcaico e contemporaneo di una guerra combattuta all’ultimo sangue per la giustizia dei vinti. «They cut my father like meat. / They took his life, took my life. / Great God in heaven, hear me. / Make them suffer, make them weep. / May their power turn to nothing. / May they die and turn to nothing». La cantilena del niente si avventa sulla famiglia contaminata dall’odio soverchio: il potere e le sue ceneri, il male cruento che vanifica la carne e sentenzia solitudine, l’assillo della morte che fornisce all’uomo l’occasione di misurarsi col proprio delitto.

C’è un unico fuoco sulla terra spenta, vi vengono bruciati frutti nel rispetto del rito che fa dell’appello sacro una voce estrema, sollevata dalla gola di Elettra mentre si sporca il volto nella polvere. Solo una tregua al momento dell’agnizione: la pratica del falso mendicante Odisseo trasposto in Oreste a manifestarsi alla sorella per consumarne congiuntamente il piano di vendetta. L’abbraccio dei due rinnova la stretta infantile, l’abbandono materno e un’alleanza intatta. Il coro che invoca il silenzio della lingua di Elettra, accoglie il patto che riconosce Clitennestra madre soltanto nel nome. Nessuna pietà è la condizione che ha permesso l’ascesa di Egisto e che farà rivivere Agamennone, non appena il cadavere della moglie avrà reso il male per il guadagno della libertà.

Nelle mosse affrontate registicamente come pedine nel cerchio delle strategie e dei rimpianti, si avverte l’incastro di una parola imbevuta dell’orrore dei secoli. Non tanto una versione odierna del male perpetuo, piuttosto un’insistenza ritmica sui corpo a corpo, condizioni che hanno aperto ad Amleto e alla schiera di drammaturgie frontali in cui proprio delirio e ragione dell’uno scatenano onde concentriche di ring, dove la scrittura primigenia di Sofocle e l’accentramento femminile fanno da respiro e modello sublime.

La mutevolezza padroneggiata da Scott Thomas nella fisicità secca, attenuata dal ricordo delle cure al fratello o, all’opposto, innervata da qualche atto di follia esacerbata, restituiscono infine della perdita, chioserebbe Winterson, l’atto d’amore primo: «Save me from my sorrows and save yourself. / Remember this. / Shame is truly shame to a noble soul».

Fino al 20 dicembre 2014 – The Old Vic Theatre, Londra

www.oldvictheatre.com

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