Città invisibili“Recluse”, ovvero L’Universo della prigionia femminile

Martine è la studentessa francese che nel film del 1974, “Prigione di donne”, di Brunello Rondi, viene arrestata a Roma e incarcerata in un penitenziario femminile in attesa del processo. La sua re...

Martine è la studentessa francese che nel film del 1974, “Prigione di donne”, di Brunello Rondi, viene arrestata a Roma e incarcerata in un penitenziario femminile in attesa del processo. La sua reclusione è solo parzialmente confrontabile con quella di Piper Chapman, una ragazza wasp, costretta a scontare 15 mesi nel carcere femminile di Litchfield, protagonista di  “Orange is The New Black”, la recente serie targata Netflix e firmata da Jenji Kohan. Ma sia Martine che Piper, come Alice e Marlene, le sfortunate amiche di “Bangkok, senza ritorno”, il film del 1999 diretto da Jonathan Kaplan, sono interpreti di un universo, non vasto, ma quasi senza voce. Quello delle detenute. Un universo al quale cercano di fornire nuovo spazio Susanna Ronconi e Grazia Zuffa con “Recluse. Lo sguardo della differenza femminile sul carcere” (Ediesse 2014, pagg. 320, euro 16,00). Un reportage, con prefazione di Stefano Anastasia e Postfazione di Franco Corleone, che utilizza 38 interviste biografiche a donne recluse nei penitenziari di Firenze, Empoli e Pisa. Una Ricerca del 2013, “Donne in carcere, lo sguardo della differenza femminile. Contenimento della sofferenza, prevenzione dell’autolesionismo e del suicidio, promozione della salute”, proposta dell’Asl 10 Firenze e realizzata dalla Società della Ragione. Una discesa in un Inferno moderno, non molto popolato, ma nel quale le sofferenze fisiche e psicologiche sono prove supreme, quasi insuperabili. Una porta aperta su un universo, perlopiù sconosciuto, popolato da Persone che col passare del tempo rischiano di perdere parti di loro, fino a diventare fantasmi. Nel testo i loro nomi ridotti a sigle, per rispettare certo la privacy ma, inconsapevolmente, anche a mostrarne il sostanziale svuotamento di ogni brandello di personalità.

“In conclusione, la reclusione femminile si presenta come questione residuale e marginale sia per gli studi, sia, ciò che è peggio, per i governi e le amministrazioni penitenziarie. Il carcere e la pena sono perlopiù pensati, teorizzati, costruiti e gestiti al maschile, il che produce un di più di sofferenza per le donne, come del resto denunciato da documenti internazionali”, scrivono nell’Introduzione al volume Ronconi e Zuffa. Le storie di quelle donne, parti delle loro confessioni, sono il corpo pulsante di “Recluse”. Ne costituiscono l’anima. Così ci si addentra “nella percezione femminile dei dispositivi della detenzione” per poi passare “alle forza delle donne. Fattori e strategie di coping” e quindi agli “Apprendimenti, riflessioni e immagini del futuro prossimo”. Aggiungendo anche “Lo sguardo delle operatrici e degli operatori”, nell’intento, dichiarato, di offrire delle “Piste per riflettere e agire”. Con uno spettro incombente. Ovunque. Sempre. Quello “dell’autolesionismo” in tutte le sue forme, compreso il suicidio. Da una detenuta all’altra, dalle loro differenti situazioni affettive, dal loro dissimile stato sociale, dalla loro opposta metabolizzazione dell’accaduto, sono evidenti dei punti di contatto. Dei fili sottili, ma tenacissimi, che legano assieme la schiera delle diversità. “Indifferenza, abbandono, mancanza di risorse, cecità di fronte alle differenti esigenze delle donne rispetto agli uomini, soprattutto. Elementi questi che si sommano al dato generale che riguarda tutte le carceri italiane. Il sovraffollamento e “la sovrarappresentazione dei e delle detenute straniere rispetto alla popolazione straniera in Italia nel suo complesso”, scrivono nell’Introduzione le Autrici. Va riconosciuto alle Autrici il merito di aver indagato nelle testimonianze delle Donne recluse con ossessivo rigore. Di essersi spinte con coraggio a sondare, anche attraverso l’analisi lessicale, ogni luogo mentale, ogni spazio temporale e fisico, delle protagoniste della Ricerca dalla quale il volume ha tratto spunto. “Storia personale”, “condizione ambientale”, “disorientamento”, “non accettazione”, “spersonalizzazione”, “minorazione”, “attesa”, “deprivazione affettiva”, “solidarietà”, “stress”, sono solo alcuni di questi “spazi”. Ma ce ne sono molti altri. Perché è chiaro come il tempo “là dentro” sia, tra le molte cose, anche un alternarsi di azioni e reazioni. In molte occasioni, in maniera quasi inconsapevole da parte delle “recluse”. “Un tempo” vuoto, riempito di gesti uguali costretti dalle regole e di pensieri atroci e stupendi. Un succedersi di giorni ad inseguire il sogno di libertà, dovendo fare i conti con la cella e il cortile. Insomma con le architetture del dolore. Un succedersi di giorni che solo in rari casi costituisce la preparazione alla “vita fuori”. La lunga premessa all’avvio di un’esistenza differente dal passato. L’occasione non scelta per esplicitare interessi sottaciuti. Proprio come accaduto ad Agnese Costagli, una delle vincitrici  del premio letterario Goliarda Speranza “Racconti dal carcere”, svoltosi alla metà di Novembre a Regina Coeli. Nel racconto della detenuta-scrittrice, “Fuori”, la descrizione delle poche ore trascorse fuori dal luogo di reclusione la vigilia di Natale. 

Tra il  “dentro” e il “fuori” continua a giocarsi  una partita “antica”, senza esclusione di colpi. Nella quale a mancare sopra tutto, continua ad essere il rispetto della dignità. Qualcuno direbbe, dei diritti fondamentali di ogni  Democrazia.

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