Swarm economics, produzione diffusa
Negli ultimi anni abbiamo assistito a un cambiamento nel modo di consumare beni e servizi. Sotto la pressione di trend globali che vanno dalla ristrettezza di risorse alla sostenibilità, dalla tensione finanziaria alla tecnologia wireless e ai social media e via dicendo, sono sempre meno numerose le aziende e i singoli consumatori che sentono il bisogno o hanno la possibilità di acquistare e mantenere individualmente alcuni tipi di asset materiali. Da Netjets a BnB, Zipcar e Buzzcar, i consumatori europei e statunitensi si stanno spostando verso quella che viene comunemente definita sharing economy, economia della condivisione. Un fenomeno trasversale a diversi settori. E un orizzonte nel quale permangono senza dubbio molte questioni aperte, in particolare di natura normativa. Lo spostamento della domanda verso il crowd sharing è però inarrestabile.
Anche dal punto di vista dell’offerta siamo alla soglia di un cambiamento di paradigma che investe le modalità di progettazione, produzione e distribuzione delle merci sul mercato globale. Nei prossimi vent’anni assisteremo a una democratizzazione della produzione che permetterà ai consumatori di creare i propri prodotti su base diffusa e decentrata e in misura sconosciuta rispetto al passato. Questo non significa che diventeranno esperti nelle varie competenze richieste ma che nella fase di progettazione si affideranno all’aiuto di sviluppatori (alcuni dei quali professionisti dello sviluppo prodotti, molti altri amatori e hacker), mentre per reperire componenti complementari a quelli autoprodotti ricorreranno all’aiuto di altri consumatori. Si formeranno comunità “manifatturiere” collettivamente dotate della maggior parte degli asset fondamentali per la sperimentazione e la produzione.
I produttori-consumatori si incontreranno sui forum online, dando vita a gruppi internamente diversificati in seno ai quali soddisfare i reciproci bisogni e scambiare idee, progetti, materiali e servizi. Si tratterà di gruppi fluidi principalmente ad hoc, piccoli o grandi a seconda delle necessità, in cui ci si aiuta a vicenda a pensare e realizzare “cose”. Scambieranno, baratteranno e si pagheranno tra loro in denaro, conoscenze, risorse e canali.
Questo tipo di modello produttivo agile e ad hoc, cooperativo e molto blandamente strutturato, genererà nuove iniziative imprenditoriali con nuovi modi di procedere e nuovi comportamenti produttivi, nonché nuove modalità volte a minimizzare i costi di transazione. È questo il fenomeno che abbiamo indicato con l’espressione swarm economics.
Il motore della swarm economics: la produzione 3D
Al cuore della swarm economics si trova il mondo in espansione della produzione tridimensionale, detta anche produzione avanzata o additiva. Le sofisticate stampanti 3D costruiscono di tutto, dalla semplice paperella di plastica all’automobile, sovrapponendo diversi tipi di materiali strato su strato. Il costo di queste stampanti è significativamente diminuito negli ultimi anni e va da diverse centinaia di migliaia a soli 150 dollari a seconda della complessità del lavoro per cui sono progettate.
Questo nuovo settore ha polarizzato per qualche tempo l’attenzione dei media. E forse non c’è da stupirsene. È apprezzato da consumatori, imprenditori e politici: i primi ottengono maggiore controllo e immediata gratificazione; gli imprenditori se ne servono per sviluppare nuove applicazioni e business model, mentre per i politici rappresenta un mezzo atto a riportare in patria i posti di lavoro che il settore produttivo ha perso da tempo.
Si tratta di un settore in cui la posta in gioco è tutt’altro che trascurabile. Secondo le stime della Banca Mondiale, Il suo valore aggiunto in percentuale sul PIL è stato nel 2012 di 13 milioni di dollari negli Stati Uniti, di 19 in Giappone e di 10 in Gran Bretagna. Piccole o grandi che siano, queste imprese costituiscono ancora in molti Paesi il nerbo dell’attività economica. Non dimentichiamo che le cifre citate si riferiscono soltanto al valore delle attività produttive in sé. Ma la produzione genera servizi e soluzioni per la vendita, la manutenzione e il miglioramento dei prodotti. Attinge inoltre alla proprietà intellettuale e all’innovazione. Nell’economia californiana, molta della quale si caratterizza proprio per l’avanzato capitale intellettuale, questo rappresenta un notevole valore aggiunto alla produzione, la quale a sua volta genera, secondo (il Committee on Jobs, Economic Development, and the Economy del)la California State Assembly, un fatturato annuo di 229,9 miliardi e costituisce la prima voce dell’export per un controvalore di 159 miliardi nel 2011. Nel settore delle energie pulite, per esempio, molte delle invenzioni e innovazioni che vedono la luce qui vengono poi integrate a Detroit, Spartanburg, Tokyo, Seul, Wolfsburg, Monaco o Stoccarda.
A livello del singolo individuo, l’attività produttiva attinge al naturale istinto umano del fare, del costruire e dell’esprimersi attraverso rappresentazioni fisiche o addizioni al mondo. Il movimento dei maker e del fai-da-te, per esempio, ha raggiunto una portata notevole, soprattutto negli Stati Uniti. Una delle iniziative imprenditoriali di maggior successo al suo interno, Techshop, ha fatto registrare negli ultimi tre anni un aumento del fatturato del 798% ed è appena entrata nella lista Inc. delle aziende non quotate in più rapida crescita. «Stiamo solo cavalcando l’onda», dice il CEO Mark Hatch. «Rispondiamo alla domanda». Nel frattempo Etsy, la piattaforma di trading e e-commerce per maker con sede a Seattle, ha quasi raddoppiato il valore delle merci scambiate, portandolo a 700 miliardi di dollari.
Non sorprende quindi che gli stakeholder del settore manifatturiero vedano di buon occhio la prospettiva di rendere possibile la progettazione, produzione e vendita di prodotti da parte di singoli individui al fine di creare posti di lavoro, stimolare l’innovazione e aumentare produttività e realizzazione. Naturalmente attorno alla produzione 3D e al movimento dei maker/fai-da-te rimangono diverse questioni aperte, dalla normativa ambientale a quella sulla sicurezza e sul lavoro. Ma la confluenza di interessi economici e politici è tale che verranno certamente risolte ed è difficile immaginare che un trend come questo possa invertirsi del tutto.
Dal formicaio alla diga dei castori: come il 3D cambia la geoeconomia della produzione
Fin qui tutto bene. Perché dunque questa incoraggiante prospettiva di resurrezione dell’attività manifatturiera dovrebbe occuparci oltre? 3D e swarm economics non sono soltanto un sogno degli hippy radicali di San Francisco o della ultraliberale Silicon Valley, ma rappresentano un profondo rimescolamento delle future modalità di funzionamento dei sistemi produttivi. E queste modalità di funzionamento influenzeranno a loro volta i luoghi, i soggetti e i costi della produzione manifatturiera.
La produzione moderna si è sviluppata fin qui in due grandi ondate: dapprima quella artigianale, presente nello sviluppo di molti Paesi del mondo, avviata da singoli mastri artigiani e confluita nelle corporazioni e nelle cooperative e poi quella industriale, iniziata in Gran Bretagna e Europa continentale e portata al suo massimo sviluppo dagli Stati Uniti durante e dopo la Seconda guerra mondiale. In Occidente è infine seguita una spinta all’efficienza e al contenimento dei costi che ha generato il tanto discusso e deprecato processo di outsourcing, delocalizzazione e infine migrazione delle attività produttive e dei relativi posti di lavoro principalmente verso l’Asia. Con lo sviluppo dei mercati asiatici molte aziende occidentali si sono spostate più vicino ai nuovi consumatori, da un lato per comprenderli meglio e dall’altro perché la normativa locale lo imponeva, e ciò non ha fatto che rinforzare il trend. Il risultato è che oggi un quinto della produzione manifatturiera mondiale si realizza sul suolo cinese, mentre la quota dei Paesi industrializzati dell’Occidente va diminuendo.
Ma presto tutto questo cambierà: certo non subito e non in tutti i settori, ma in modo lento e costante nel corso dei prossimi vent’anni. La produzione si sposterà sempre più dai grandi stabilimenti centralizzati gestiti in modo gerarchico (i “formicai”) a operazioni individuali o collettive su scala ridotta (le “dighe dei castori”), rese possibili dalla tecnologia tridimensionale e dal cloud computing.
In che modo ciò avverrà?
Con l’evolvere della tecnologia delle stampanti e delle applicazioni big data e man mano che il movimento dei maker comincia ad acquisire le necessarie competenze informatiche, le piccole aziende e i singoli produttori-consumatori acquisteranno stampanti 3D con cui fabbricare oggetti di piccole dimensioni o componenti di prodotti più grandi. Grazie alle applicazioni analitiche saranno in grado di individuare i punti caldi dei trend al consumo, che attirano l’attenzione del pubblico e degli investitori. In questo saranno aiutati da aziende come Quid, che stanno già muovendosi silenziosamente in quella direzione e che li porteranno a un livello di granularità molto superiore. Le applicazioni di progettazione permetteranno loro di simulare le varie configurazioni di prodotto e di testarle rispetto ai bisogni da soddisfare. A questo punto disporranno anche dei mezzi per ricercare e contattare, all’interno della cloud nonché delle reti e comunità specifiche dei maker, altri che siano in possesso di capacità complementari. Il profilo e le specifiche competenze portati in cloud da un maker si combineranno con quelle degli altri a creare le capacità sinergiche e le condizioni logistiche che li porteranno a collaborare.
La reattività alle ultimissime tendenze del mercato sarà elevata in quanto i rapporti saranno immediati e diretti mentre i costi di transazione e quindi le spese generali si manterranno bassi. Benché quantitativamente limitati, i singoli lotti di produzione riusciranno aggregandosi a coprire il volume richiesto dai consumatori, anche se vi sarà ovviamente un’alta incidenza di tentativi abortiti, di reazioni negative e contestazioni da parte di consumatori insoddisfatti dei livelli di qualità, sicurezza e affidabilità.
Sarà necessario varare nuove normative che tutelino il nascente orizzonte economico senza soffocarlo. Per questa ragione non è ancora chiaro a che ritmo evolverà questa “economia di sciame” e in quale direzione. Ma una cosa è pressoché certa: i giorni delle megafabbriche in cui una manodopera poco differenziata sforna prodotti omogenei destinati a utenti non identificati sono contati.
N.B. Questo articolo e’ estratto da Harvard Business Review Italia, Settembre 2014, scritto da Mark Esposito, Olaf Groth e Terence Tse