The New PublicQuando la ricerca guarda al territorio

In vista del Def espansivo annunciato dal ministro dell’Economia Padoan (previsto in Parlamento entro la settimana prossima) si riaccende il dibattito sul finanziamento delle infrastrutture e il so...

In vista del Def espansivo annunciato dal ministro dell’Economia Padoan (previsto in Parlamento entro la settimana prossima) si riaccende il dibattito sul finanziamento delle infrastrutture e il sostegno alle imprese che operano in settori strategici (non solo tecnologici).

Descrizione: 

Foto Jonathan McIntosh

Pur nel rispetto dei vincoli Ue ci sono nuovi margini da sfruttare per cercare di agganciare una ripresa che secondo il ministro è alle porte (nonostante i dati sulla disoccupazione, letti come “segnali di assestamento”). Un Pil stimato in crescita (secondo il ministro Boschi al +0,7%) e la nuova flessibilità sul deficit fanno ben sperare, ma bisogna stimolare gli investimenti, perciò il Def indicherà 49 infrastrutture “selezionate e pensate” per ricevere i finanziamenti dal Feis (Fondo europeo per gli investimenti strategici, con una dotazione di 21 miliardi che potranno generare fino a 315 miliardi di investimenti). Accanto a questi ci sono sempre i fondi a lungo termine (come gli 8 miliardi che la Cdp si è impegnata a versare nel Piano Junker) e i fondi strutturali europei (come i fondi Fesr) che potrebbero unirsi o dividersi i compiti come stanno in parte già facendo. 

Ma c’è anche bisogno di sburocratizzare. E di provvedimenti legislativi (come il decreto legge 24 gennaio 2015, n. 3) che consentano di garantire un più efficiente trasferimento tecnologico dai centri di ricerca che creano invenzioni e brevetti alle imprese che applicano quelle invenzioni innovando processi e prodotti. La conversione in legge del citato decreto consentirà, per esempio, alla Fondazione Istituto Italiano di Tecnologia “di costituire e/o partecipare a start up innovative e altre società, con soggetti pubblici e privati, italiani e stranieri”. L’IIT, nota il Presidente Galatieri di Genola, potrà quindi “partecipare direttamente alle startup e spin off generate dalla propria attività di ricerca”.

Bisognerà infine garantire che i nuovi prodotti così creati abbiano ricadute dirette sulle comunità locali e nei territori in cui sorgono i centri di ricerca. Solo allora si potrà dire che le politiche industriali possono aiutare il trasferimento tecnologico e in questo modo accrescere il valore pubblico delle applicazioni tecnologiche (e delle stesse tecnologie general purpose). Del resto è quello che succede in tutti quei paesi che hanno ripensato la ricerca e la stessa formazione universitaria in funzione delle esigenze del territorio e dell’economia nazionale.

Si prenda il caso del Create Lab di Carnegie Mellon University. Si sono chiesti: come possiamo fare in modo che un Laboratorio universitario (che si occupa di robotica e applicazioni ICT) abbia un duraturo impatto sulla qualità della vita nella comunità circostante? Al Create Lab i bisogni della comunità vengono definiti in modo partecipato; solo a quel punto si progettano e fabbricano i prototipi usando strumenti e materiali tecnologici customizzati alle esigenze del territorio e accompagnati da studi di fattibilità e sostenibilità ambientale. Segue quindi la ricerca di partner commerciali che consentano la produzione in serie e la diffusione; e dopo la commercializzazione, il Laboratorio rimane un punto di riferimento: con workshop, formazione di insegnanti, fornitura di testi e materiali informativi, assistenza tecnica.

Senza andare troppo lontano, nella vicinissima Lugano la Supsi (Scuola universitaria professionale della Svizzera italiana) si è data da tempo una mission tutta orientata allo sviluppo del territorio. Molti gli insegnamenti applicati, così i docenti fanno meno ricerca, ma curano la didattica, e in alcuni corsi gli studenti possono frequentare un giorno alla settimana, potendo quindi lavorare nei restanti 4 giorni. Come osserva Matteo Turri in Reinventare il pubblico, “un’impresa del bergamasco non ha bisogno di un laureato in economia che sappia usare il calcolo integrale, ma di qualcuno che sappia dove trovare la partita Iva di un’azienda”. Una disseminazione di cultura tecnologica che potrebbe aiutarci a ripartire. Le università che non si dedicano alla ricerca fondamentale dovrebbero puntare a soddisfare le esigenze del territorio, formare professionisti che possano trovare lavoro nelle aziende pubbliche o private della zona. È ora che di questi temi si cominci a discutere anche da noi.

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