Confesso che l’attendevo il lavoro di Zerocalcare per Repubblica. In primo luogo perché amo il fumetto, sono nerd fino al midollo. E perché so quanto possa essere potente come mezzo di comunicazione, capace di parlare a tanti e a più livelli. Era, tuttavia, il tema che mi intrigava: come si era capito da qualche sua uscita, Zero se la prende con la deriva darwinista, eugenetica che riposa dietro l’angolo di quella voglia, sempre più espressa anche sui social network, di una Roma (una città, un ambiente urbano in generale: la Città dei Puffi, come la chiama lui) che funzioni meglio, che sia più pulita, meno sciatta e più capitale europea. Vivere in un ambiente migliore è un’aspirazione corretta ed è giusto che i cittadini, in forma più o meno organizzata, si facciano sentire. Zero, dal canto suo, mette sull’avviso di un rischio, che pure esiste: occhio a non dare la colpa alle prime vittime di un habitat urbano degradato, il povero e lo straniero in primo luogo. Meglio dircelo chiaro: i primi colpevoli di una Roma da sempre sull’orlo dello sfascio siamo noi, i Romani. Se ci piace parcheggiare in seconda fila, non fare la differenziata, mostrare disprezzo per le fragilità, la colpa è nostra. Da condividere con la politica, naturalmente. Ma i primi da rimproverare siamo noi stessi. Mi ha molto colpito, ad esempio, che i cittadini di Milano siano scesi in strada a ripulire dopo la devastazione di un gruppo di teste vuote col casco nero: è stata la riappropriazione di uno spazio comune che tutti noi invochiamo ma che spesso finisce sulla soglia di casa nostra. E poi sì, ci metto anche i writers (scusa Calca’) che taggano mura, palazzi e beni pubblici (come le metropolitane): mi stanno sulle scatole e vanno perseguiti. Così come i parcheggiatori abusivi che a Capocotta e in mezza Roma sono organizzati come falangi spartane. Ma qui tiro una linea, che deve dividere un sistema da condannare e chi nel sistema ci viene tirato dentro. In altre parole: i ragazzi cingalesi che vendono aste da selfie e materiale contraffatto in tutto il centro storico (l’ho denunciato con una lettera sul Corriere della Sera di Roma qualche giorno fa) non sono il nemico da abbattere, ma le vittime di un sistema criminale, che per pochi spiccioli li assolda e li sfrutta. Così come quelle facce stravolte che sera dopo sera macinano chilometri a vendere rose sfatte a chi si riempie la pancia nei ristoranti (ma non c’era la crisi?). I tanti, troppi senza casa (i barboni, quelli che puzzano) che vediamo accucciati sopra le grate delle banche e delle stazioni non commettono un reato: non hanno un domicilio, e vivono per strada. Sono le ombre della città, a cui dedichiamo uno sguardo veloce e un’alzata di spalle. Tutto chiaro? Non sempre. E la prostituzione? Ripuliamo le strade e facciamo esercitare il mestiere in casa? Così va bene? E le ragazze e i ragazzi rom che vengono mandati a fare i borseggiatori? Li incarceriamo? O regaliamo loro il portafogli? Paradossi a parte, una soluzione non ce l’ho, francamente. Ma quello che rischiamo di perdere, schiacciati da città sempre più incasinate e fredde, è la compassione, nel suo vero senso di com-partecipazione agli altri, con gli altri. È facile trovare un obiettivo contro cui sfogare tutte le mie, le nostre frustrazioni. Ma ricordo distintamente quello che i miei vecchi mi hanno raccontato quando, mossi dal bisogno, se ne andavano in Svizzera, in Germania o a Milano, a fare quei lavori che nessuno voleva fare, disprezzati da tutti, sottopagati e con orari massacranti, per poi tornare a dormire in un appartamento affollato di compaesani nella stessa brandina mezza sfondata che dividevano con chi faceva il turno di notte: sporchi, brutti e cattivi. Un po’ come le ombre nella Città dei Puffi raccontata da Zero.
11 Maggio 2015