Ora che anche il premier ungherese Viktor Orban si mette all’occhiello il suo pezzetto di muro per frenare l’immigrazione dalla Serbia, fa un po’ tristezza ricordare che la prima breccia nel muro di Berlino si aprì proprio in Ungheria. Era il 27 giugno del 1989 quando i ministri degli esteri di Ungheria e Austria, Gyula Horn e Alois Mock, si presentarono alla frontiera dei due Paesi armati di cesoie con le quali spezzarono davanti alle telecamere le barriere di filo spinato che separavano non solo Austria Ungheria, ma due mondi. L’Ovest e l’Est, il mondo libero e quello schaicciato dai regimi coministi legati dal Patto di Varsavia. Fu un colpo di cesoia alla Guerra Fredda.
Il varco fra Ungheria e Austria in pratica aprì le porte all’esodo dei cittadini tedeschi orientali, che allora potevano viaggiare in Ungheria in relativa libertà. Nel giro di poche settimane passarono la frontiera centinaia di migliaia di persone, dando così una accelerazione inarrestabile verso la caduta del muro di Berlino, il 9 novembre dello stesso anno.
Magari si tornassse a quel clima del 1989, pieno di speranze e fiducia, in cui i popoli si incontravano senza temersi. Invece eccoci ancora qui, 26 anni dopo, a parlare di muri e barriere. Muri di pietra, barriere di filo spinato, muri nelle teste e attorno ai cuori.
Durante la Guerra Fredda nel mondo si contavano una decina di muri. Oggi sono almeno cinquanta. Solo qualche esempio. Fra Stati Uniti e Messico è stato alzato dal 2006 un muro di 1.050 chilometri. La “barriera di separazione” costruita a partire dal 2012 da Israele in Cisgiordania misura 700 chilometri. L’Arabia Saudita ne sta costruendo uno alla frontiera con l’Iraq e un altro al confine con lo Yemen. Da un anno il Marocco sta costruendo muri alla frontiera con l’Algeria, mentre da decenni è in piedi il muro eretto dai marocchini nel Sahara Occidentale. L’India ha sigillato la frontiera con il Bangladesh. La Spagna, invece, il suo muro, con barriere alte fra i 3 e i 5 metri, lo ha costruito nella sua enclave di Melilla, alla frontiera con il Marocco, e abbiamo ancora negli occhi le immagini dei migranti appesi per ore e ore su quella barriera.
Blindare le frontiere contro il passaggio dei migranti e per difendersi dal terrorismo ormai ha fatto prosperare un business della sicurezza. Secondo la ricercatrice canadese Elisabeth Vallet, questo mercato vale 19 miliardi di dollari. Costruire muri costa parecchio. Secondo la Vallet, che cita dati ufficiali, il muro fra gli Stati Uniti e il Messico è costato fra 1 e 4,5 milioni di dollari al chilometro. I costi elevatissimi derivano dalla espropriazione dei terreni, dalla manodopera, dalle sofisticate tecnologie utilizzate per la sorveglianza. Già, perché non basta alzare un muro. Poi bisogna tenerlo sotto controllo giorno e notte con sistemi di allarme, guardie, telecamere, droni, radar. I muri, inoltre, spesso costruiti in zone di condizioni climatiche estreme, hanno bisogno di una manutenzione continua.
Il business della sicurezza fa prosperare soprattutto aziende britanniche, statunitensi, sudcoreane, francesi e israeliane. Affari d’oro per aziende legate soprattutto al settore militare e aerospaziale. Secondo gli esperti del settore, nei prossimi anni il mercato più appetibile ( si parla di un giro di affari di 20 miliardi di dollari) sarà quello saudita. I sovrani sauditi, di fronte al vento (ma soffia ancora?) delle “primavere arabe” e alla minaccia che arriva dai terroristi di Isis si stanno blindando con un sistema di sorveglianza esteso per 5.000 chilometri, con l’impiego di 225 stazioni radar, 400 postazioni militari, 20.000 guardie di frontiera, una ventina di aerei più droni ed elicotteri.
Se Orban avesse le ricchezze del petrolio forse ci farebbe anche lui un pensierino.