The Other Side
Mark viene ripreso di spalle, a petto nudo. Voga su una canoa lungo un ambiente paludoso, poi si volta verso la camera. In poche immagini il paradosso di una popolazione europea trapiantata in un mondo naturale e climatico completamente estraneo al prototipo dell’uomo bianco occidentale conosciuto nella modernità. È la Louisiana indagata nel docu-film di Roberto Minervini uscito il 28 Maggio e presentato a Cannes insieme alle opere di Moretti, Sorrentino e Garrone. Dopo la trilogia del Texas culminata con quel Stop the pounding heart, premiato con il David di Donatello 2014 e apprezzato come proiezione speciale a Cannes 2013, Minervini prosegue il viaggio nel cuore profondo del territorio a stelle e strisce.
Louisiana (The Other Side). L’altro lato del titolo è il ventre di un paese bulimico e feroce. Un pezzo di America dove il 60% delle persone sono disoccupate e abbandonate alla droga e all’indigenza. Ma lo sguardo di Minervini non si limita ad affrontare l’ennesimo ritratto dell’altra faccia del sogno americano. Le immagini di Louisiana deflagrano là dove viene restituita la rabbia e il sentimento di abbandono e rivalsa che tiene uniti i personaggi dell’opera. Junkies, alcolizzati, senza tetto, madri strippers ed eroinomani. Lo sfacelo di un midwest alla deriva: antigovernativo per necessità, dove il distacco emotivo dalle politiche centrali è incolmabile. All’interno di questo vuoto si muovono nella prima parte Mark ‒ drug dealer-messia di una famiglia e di una piccola comunità ai margini, fabbricatore di paradisi sintetici ‒ il quale vuole andare in prigione per disintossicarsi (“non posso smettere stando in questa città”); lo sguardo si sposta poi verso un gruppo di paramilitari, materializzazione di quel libertarismo proto-repubblicano al suo stadio più selvaggio e pulsionale, che vive nel terrore dell’invasione e nell’immaginario anarco-comunitarista in rotta con la forma centralistica e sovra-statale assunta nel tempo dagli Stati Uniti. “L’America è una voragine pronta a risucchiarti, bisogna proteggersi”, sono le parole dello stesso Minervini dopo l’esperienza di vita con le comunità riprese nella sua opera.
Legalize Freedom
Rispetto alle produzioni precedenti, il focus qui è esplicitamente politico. Non si punta tanto alle vicende private, ma al loro status rappresentativo, facendo di Louisiana, al di là dei meriti artistici, una riserva di immagini per comprendere lo status attuale degli Stati Uniti e delle imminenti presidenziali. Le vicende vengono seguite senza giudizio o moralismo di sorta, eppure, tra i personaggi, emerge a più riprese l’astio verso la figura del presidente Obama. Insulti a sfondo razziale, simulazioni di fellatio con maschere del Presidente, macchine-simulacro trivellate di piombo. Il quadro che ne emerge è un paese che ha perso il suo potere simbolico. Si potrebbe andare ben oltre le intenzioni di Minervini. Quello della Louisiana è un territorio invisibile, ma decisivo nell’ottica elettorale. Ci sono alcune scene chiave in The Other Side cheevidenziano le ferite inconsce di una parte della popolazione americana. Un gruppo di anziani discute di politica. Obama “sta rovinando persino i neri!”, dice uno di loro. E la speranza viene riposta non in un candidato repubblicano, ma in Hilary Clinton: perché è una donna, come dicono. L’apparente ingenuità trova un filo conduttore in un tema che appare in filigrana lungo tutta l’opera. La maternità, l’abbandono. Mark che inietta eroina ad una ragazza che poi vediamo esibirsi in uno strip-club incinta. Mark che tra le rovine della sua vita mantiene un rapporto profondo e vitale con la madre e con la nonna. Sin dall’11 settembre, è il ruolo di grembo protettivo che gli Stati Uniti stanno perdendo, e questo è ciò che molti americani avvertono come il lascito dell’era obamiana. Gli Stati Uniti non sono più i guardiani del mondo. La gestione delle crisi medio-orientali, la riforma della sanità, la sconfitta nelle elezioni di Midterm, la necessità di un riposizionamento globale tramite i trattati TTIP e il Trans Pacific Partnership. Una serie di punti critici che hanno minato la figura del presidente americano, costringendolo ad una continua ricerca di consenso presso l’opinione pubblica, come si è visto con la decisione della Corte Suprema sui matrimoni gay e l’hashtag #lovewins dopo che la popolarità era scesa ai minimi storici.
Yes we can?
Sin dall’insediamento alla Casa Bianca, Obama non ha avuto vita facile. La mancanza di una exit strategy per l’Iraq, la promessa non mantenuta di una diminuzione delle truppe in Afghanistan (in realtà aumentate insieme alla spesa militare), la proroga del contestato Patrioct Act hanno creato malumori non solo in area repubblicana. Numerose volte è stato bersaglio critico del giornalista dem David Sirota, ad esempio a proposito dello scandalo sulle intercettazioni della National Security Agency. Obama, del resto, ha sempre puntato tutto sulla comunicazione, sullo studio delle parole e delle “narrazioni”; terreno fragile, sempre lì per scontrarsi con la realtà fattuale. Prendiamo alcuni esempi chiavi: la riforma sanitaria. Durante il suo primo mandato, ha cercato di costruire la figura del presidente rivoluzionario che avrebbe introdotto una forma sostenibile di welfare state sanitario tramite l’Affordable Care Act. Una misura fortemente contestata dai repubblicani soprattutto per via della sostenibilità dei costi. Nel dibattito europeo lo scontro è stato raccontato superficialmente come uno scontro ideologico. Eppure va ricordato che la riforma è modellata su quella che lo stesso Mitt Romney attuò quando era governatore del Massachusetts, il quale più volte ha dichiarato di apprezzare alcuni punti della riforma, e che il nodo critico fosse l’idea di attuarla a livello federale senza lasciare la possibilità di gestione della sanità ai singoli stati. Intorno al febbraio 2014, l’Ufficio di bilancio del Congresso (Cbo) pubblica una relazione in cui si sostiene l’intrinseca depressività della riforma sul mercato del lavoro, generando una possibile riduzione di 2,5 milioni di lavoratori nell’arco di dieci anni. Relazione accolta da parte dell’opinione pubblica come conferma delle critiche dei repubblicani. Ciò accadrebbe perché le fasce di salario più basso della popolazione americana verrebbero scoraggiate in ambito lavorativo, dal momento che un leggero aumento di stipendio o il miglioramento di certe condizioni di lavoro potrebbero far perdere la possibilità del sussidio, rendendo conveniente così il passaggio al part-time o all’abbandono totale del lavoro da parte di uno dei due partner di una coppia.
Sul piano della politica estera, invece, le tensioni sono emerse in misura rilevante anche tra i democratici. A cominciare dalle dimissioni di Chuck Hagel, capo del Pentagono, in rotta per la marginalizzazione del Dipartimento della Difesa in merito alle decisioni sullo scenario siriano nella strategia anti-Isis. Fino poi alle critiche di Hilary Clinton, che da qualche anno ha cominciato a preparare la sua strada per le presidenziali. La Clinton ha capito che, al di là dei meriti di Obama, ciò che è venuto a crollare è il potere simbolico che il presidente aveva costruito inizialmente. Così, già dall’agosto 2014, ha cominciato a smarcarsi in un’intervista al giornalista Jeffrey Goldberg dell’Atlantic. Analogamente ad Hagel, la Clinton nell’intervista critica l’eccessiva cautela nella situazione siriana; così come il vuoto di potere creatosi sul campo che ha permesso allo Stato Islamico di prendere terreno in Iraq. La strategia della Clinton è incentrata proprio sulla ricostruzione della figura degli Stati Uniti come di un paese forte ed egemone, alternandosi tra l’apprezzamento per l’operato di Obama e la presa di distanza. Così, a proposito del recente accordo sul nucleare con l’Iran, la Clinton si è subito affrettata a rinfrancare i rapporti con la lobby israeliana ‒ critica verso gli esiti dei trattati ‒ affermando “sarò un’amica di Israele migliore di Barack Obama”. Il timore è quello che, come accadde a seguito della discussa politica estera di Jimmy Carter, i cosiddetti “Jewish donors” (i grandi finanzieri ebrei americani)possano spostare il loro appoggio economico ed elettorale sul candidato repubblicano, così come all’epoca fecero con Reagan in funzione anti-comunista, preferendolo al collaudato asse con i democratici.
La Louisiana di Minervini ci mostra allora quel bacino elettorale che si fa emblema dell’America profonda che ha perso il suo riferimento simbolico alla terra madre. Una popolazione abbandonata, lasciata a se stessa, rinchiusa tra le pareti d’ombra della rabbia. Così Obama sconta la contraddizione di un paese che si auto-celebra come campione dei diritti civili, mentre – ancora sotto i governi del primo presidente nero degli Stati Uniti – il tasso di mortalità infantile dei bambini nati da madri afroamericane risulta il doppio rispetto a quelli nati da donne bianche; dove la terza causa di morte tra i neri afroamericani è l’omicidio e il tasso di incarcerazione di giovani neri è di 12.603 per centomila, contro quello di 1.666 di giovani bianchi. Sul finale dell’opera, una macchina al tramonto è sfiorata da una luce faulkneriana. Su di una fiancata, con lo spray, campeggia la scritta “Obama sucks”. Poi qualche secondo di silenzio prima che il gruppo di giovani paramilitari la crivelli di colpi. Tutto sa di esecuzione alla promessa di un immaginario tradito.