Assalonne!L’importanza di pensare geopoliticamente. Sulla crisi siriana e dintorni

  Bisogna partire da un punto fondamentale: Stato Islamico e flussi migratori sono questioni globali a cui bisogna rispondere globalmente. Questo vuol dire tramite una risposta politica comune di ...

Bisogna partire da un punto fondamentale: Stato Islamico e flussi migratori sono questioni globali a cui bisogna rispondere globalmente. Questo vuol dire tramite una risposta politica comune di lungo termine, progettuale si direbbe oggi, al di là degli interessi del qui e ora. Sia chiaro: non è tanto una questione di superamento degli egoismi degli stati nazionali, quanto di superare i tabù che hanno caratterizzato la stessa visione occidentale degli scenari internazionali; tabù che ci hanno relegato alla risoluzione frettolosa dell’immediato, mancando di uno sguardo di prospettiva e di una comprensione delle delicate dinamiche di territori estranei alla nostra cultura e ai nostri valori politici. Questo significa pensare geopoliticamente. Ciò che, dall’Iraq all’intervento anglo-francese che ha destabilizzato la Libia, è mancato all’Europa, mettendo ancora più in discussione la supposta Unità di essa. Oggi ripetiamo gli stessi errori. Rimaniamo incapaci di separare le questioni umanitarie legate a quelle aree lontane dalla democrazia occidentale dalla gestione razionale dei fenomeni epocali che stiamo subendo direttamente come Occidente.

Da ieri mattina, l’aviazione francese ha cominciato a sorvolare la Siria. La RAF di David Cameron, il quale aveva già fatto partire alcuni droni in Agosto, si unirà all’operazione. Apparentemente, l’obiettivo è quello di formare una coalizione anti-Isis, eppure Hollande si è affrettato ad aggiungere che un punto importante rimane (soprattutto?) la neutralizzazione di Bashar al-Assad. Nei giorni scorsi, due battaglioni dell’esercito turco e otto squadre delle Operazioni speciali della gendarmeria hanno compiuto un blitz di terra nel nord dell’Iraq per colpire i guerriglieri curdi del PKK. La Turchia, considerata un alleato imprescindibile del mondo occidentale, è stata uno dei protagonisti della destabilizzazione dei territori siriani lasciando libero il passaggio dei miliziani dell’Isis in uscita e in entrata. L’obiettivo principale della propria politica, al di là dei proclami di superficie, è sempre stato, da una parte, il contrasto dei guerriglieri curdi e, dall’altra, l’abbattimento di Assad, come rivincita sul governo iraqeno sciita che ha sostituito Saddam. Gli Stati Uniti sono impelagati in quello che Sergio Romano, in un suo editoriale sul Corriere della sera, ha definito “un groviglio di desideri incompatibili”: né Isis, ma nemmeno Assad e Putin. Quest’ultimo, infatti, nei giorni scorsi aveva teso la mano a Washington per collaborare insieme alle democrazie occidentali contro il pericolo islamista. Offerta rifiutata per la paura di favorire un ruolo di primo piano a Putin nella gestione del Mediterraneo. Ma la soluzione americana di Obama esclude radicalmente un coinvolgimento diretto. Tradotto: un intervento di terra; forse l’unica possibilità di combattere senza rafforzare il sostegno anti-occidentale che ingrossa le file dello Stato Islamico a causa del coinvolgimento di civili islamici nei raid aerei. Su questa linea sembra ambiguamente porsi il ministro degli esteri italiano Paolo Gentiloni, il quale ha criticato aspramente il rafforzamento dell’intervento militare russo in Siria. Gentiloni ha parlato più cautamente di un superamento del regime di Damasco attraverso una “transizione politica”. Ma senza nomi, senza alternative concrete, il rischio di replicare il caso Gheddafi è altissimo; e il governo italiano continua a non avere una posizione chiara, continuando a favorire indirettamente i miliziani dello Stato Islamico tramite le sanzioni alla Siria.

In questo quadro, una vera coalizione anti-Isis è impossibile. Decretare la fine di Assad a causa delle violenze sulla popolazione civile, ma allo stesso tempo eliminare i suoi nemici senza di lui ‒anzi contro di lui ‒ suona quantomeno paradossale. Non abbiamo la capacità militare a terra, non sappiamo combattere in quei territori, non abbiamo l’appoggio di quei territori. L’Isis è sempre più vicina a Damasco e, che piaccia o no, la sua avanzata è frenata solamente dall’appoggio russo e iraniano al regime di Assad. D’altronde, è lo stesso premier iracheno ad aver dichiarato di potersi appoggiare ormai solo sulle milizie sciite e sui Guardiani della Rivoluzione, i Pasdaran iraniani. La minaccia dello Stato Islamico sta facendo emergere la fragilità di un Occidente incapace di dare risposte adeguate alla situazione medio-orientale. Un Occidente che, persino di fronte alle minacce dirette, è legato alla strategia atlantista del contenimento degli equilibri di potere. Nessuna reale coalizione anti-Isis potrà darsi finché la priorità di Stati Uniti e Unione Europea sarà quella di abbattere Assad, evitare che Putin giochi un ruolo fondamentale nella risoluzione della crisi, contenere Teheran e non spazientire le monarchie del Golfo. Eppure, qualcosa sta cambiando: perché il pragmatismo sulla crisi siriana e sui rapporti con Assad non è più argomento da siti di controinformazione, ma prende forma di ipotesi e discussioni su autorevoli testate come il Guardian o IlSole24ore, per fare qualche esempio. Ma cosa più importante, sta mutando l’atteggiamento di alcune cancellerie europee. Emblematico è il caso del presidente austriaco Heinz Fischer. In visita ufficiale a Teheran, insieme al ministro degli Esteri Sebastian Kurz, hanno auspicato un cambio di atteggiamento nei confronti di Assad e ribadito l’importanza del coinvolgimento di Iran e Russia. Appello rafforzato dalle parole del presidente iraniano Hassan Rouhani, il quale ha mostrato apertura ad un tavolo “con chiunque sia disponibile ad assicurare un futuro democratico alla Siria”, non escludendo nemmeno un accordo con Washington. È la logica del male minore ‒ impostasi ormai forzatamente dall’evolvere della situazione medio-orientale ‒ che l’Occidente non ha il coraggio di accettare, rimanendo in un’impasse insostenibile a lungo termine.

Pensare geopoliticamente, allora, significa proprio essere capaci di quel realismo che in una situazione d’emergenza consente di assegnare razionalmente delle priorità ai propri obiettivi. Capire che la Russia, ad esempio, non ha nessun interesse a porsi come nemico della Nato. E avere quel tanto di cinismo in più per chiedersi: chi davvero sta attualmente minacciando l’Occidente? 

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