Il sangue, la neve. Quasi un’ossessione ripetuta, come deve essere nel segno di un memoriale che ha carne di racconto pagato col dissenso. È lo sdoppiamento che reca il sangue delle vittime inermi e dei combattenti nel gelo ceceno e russo, è un contrasto di colore che deve i propri calchi e sedimentazioni di rabbia incredula al giornalismo testimone di Anna Politkovskaja e alla sua fine tra un viaggio e l’altro di ritorno dalla spesa.
Sono trascorsi nove anni da quell’omicidio cui nessuno ha voluto assegnare un responsabile, deducendone piuttosto e soltanto la committenza dall’arma abbandonata accanto al corpo della giornalista priva di tessere politiche. Nella ricostruzione drammaturgica dei suoi scritti, il sangue e la neve tornano come riflessi di una composizione che Stefano Massini percorre a riquadri di immagini, restituzioni fotografiche di brandelli di guerra e assalti terroristici, decapitazioni ed esplosioni nella lingua volutamente scarna, perché misurata a ogni battuta, di Politkovskaja.
Non è da meno, nel carico simbolico e brutale delle parole, il biancore di una neve che accorpa in purezza l’anima della testimone cui la morte di sangue nero – dopo una lunga permanenza a Groznyj, con giornate scandite dal frastuono dei “difensori della Russia” contro i ceceni “arabi del sud” e dall’impossibilità di acqua e cibo regolari – risponde come prova di esistenza di un popolo che è nulla agli occhi dell’imperialismo della “giusta guerra”.
La Cecenia è piuttosto una pedina da fiction con nomignoli e vizi, brutture da nemico deforme cui il soldato russo inviato sul fronte del Caucaso barbaro risponde con la falsità mediatica di una missione e la verità mostruosa di stupri e razzie più selvagge di quanto la memoria letteraria sappia rintracciare nelle trame di Tolstoj. Così, l’accorpamento drammaturgico a collage di Massini torna in scena a rimasticare sangue nella neve delle pagine di Politkovskaja, ora raccolta dalla sempre intensa e pugnace Elena Arvigo, all’interno di un progetto anche a cura di Rosario Tedesco.
I tratti del memorandum attraversano un quadro scenico che si avvale di proiezioni, scenari e oggetti di alienazione del conflitto russo-ceceno quale, ad esempio, un’emblematica elica militare che ruota riflessa sulla figura di Arvigo in un piano di chiaroscuri replicati come altra catena di trasmissione dei fatti. La sagoma testimone di Anna è invece incastonata in una porta vuota che diviene alternativamente tomba dell’isolamento della libertà di stampa, ma anche testa mozzata e accampamento, dove Politkovskaja intervista militari poco più che adolescenti, nati durante la Perestrojka e avvinti dal fascino cruento della conta giornaliera di vittime cecene.
Il telaio di legno a uscio mobile è esso stesso strumento di una scrittura che ascolta e osserva coloro che, con parole brechtiane, si direbbero tenere i fili dei destini più deboli, mentre prostrano i familiari delle vittime con richieste di privilegi assurdi, in cambio della mancata restituzione dei corpi annientati o finiti in fosse di spazzatura tra altri prigionieri.
Non c’è confusione nella voce di Arvigo mentre dalla platea fa ingresso in scena carica di borse, iniziando a fare ordine tra sequenze e fotogrammi in cui prendono posto volti di vecchi e giovani, di attentatori che sequestrano il Teatro Dubrovka di Mosca e la scuola di Beslan in Ossezia, ma anche del figlio di Anna quando, con terrore, fa intendere il primo fallito tentativo di uccidere la madre per uno scambio di persona. Musiche accompagnano i gesti misurati quanto il modo di tirar su col naso degli ufficiali russi, e smisurati come l’affanno della minaccia che scorre tra vomito, merda e puzzo di carne bruciata.
I giornalisti che, come Politkovskaja, scelgono di portare a termine il proprio lavoro nel mezzo del massacro sono giudicati “non rieducabili” dalle ufficialità, pagano la propria coerenza con arresti e morte, nonostante quest’ultima sia divenuta più ordinaria della guerra compiuta per dovere di patria.
I fiori sparsi in scena a ricordare i nomi delle vittime infantili della strage di Beslan delimitano ancora di più l’isola che ogni silenzio, complice del despota carnefice o del ribelle terrorista, getta come miseria sulla terra dei conflitti rimossi dalle mappe.
La Cecenia del mezzo o “ripostiglio del mondo” è un cammino e una corsa perenni tra le fosse su cui Anna Politkovskaja scrive articoli e reportage da dettare al telefono da una delle poche cabine non rase al suolo. Il sangue, la neve sono occhi d’attrice che oggi s’allargano o serrano nella ripresa lenta, sospesa nei dettagli di un diario teatrale e civile che merita quell’ascolto negato altrove, con il ricordo dell’unica risata di gioia di Anna al vedere acqua calda scorrere dal rubinetto di un albergo europeo.
Se infine è vero che al teatro per primo è concessa libertà di riscrittura di luoghi e miserie con echi di confronto aperto, serve ancora una scena povera per perpetuare diritti non per tutti inalienabili. Si va dal rifiuto di un’etichetta alla narrazione di un eccidio mai riconosciuto, e Arvigo è certo Politkovskaja mentre, tra i detriti della storia, quel fiato si solleva, corre, di rado piange, crolla e riannoda il mattino torrido o congelato a una scrittura vorace di identità che smettano di gocciolare come teste di oppressi.
Fino al 25 ottobre 2015
MILANO – TEATRO OUT/OFF e poi in tournée
DONNA NON RIEDUCABILE
di Stefano Massini
un progetto di e con Elena Arvigo
a cura di Rosario Tedesco
luci e video di Andrea Basti
collaborazione artistica di Damiano D’Innocenzo
produzione Santa Rita Arts Centre in collaborazione con Teatro Out Off