Non li sento da qualche anno, ma so dove vivono e che sono felici. La loro storia nessuno l’ha mai raccontata, ma meriterebbe che qualcuno lo facesse. Perché il lui e la lei di cui vi voglio parlare sono due persone che si sono conosciute in una comunità di recupero per tossicodipendenti e che oggi sono una famiglia. Era metà degli anni Novanta, la comunità si era appena insediata nei pressi del mio paese in Puglia, nelle villette costruite alcuni decenni prima per ospitare le persone che venivano dimesse dalla vicina colonia hanseniana, che tutti – per comodità, usanza e, soprattutto, pregiudizio – a Gioia del Colle chiamiamo il lebbrosario.
Gli ospiti erano appena una decina quando mi affacciai la prima volta per propormi come volontario. Tra loro c’era un ragazzo, G., agli arresti domiciliari. Era abruzzese. Taciturno, riuscire a cavargli una parola di bocca non era semplice. Come altri ospiti della comunità, in passato aveva avuto un lavoro. Muratore. Poi l’eroina, la discesa, i furti per procurarsi la roba, l’arresto, la comunità.
Qualche tempo dopo alla “Fratello Sole” arrivarono altri ospiti, provenienti da una struttura di prima accoglienza gestita da un sacerdote bergamasco in un paese vicino.
Nel gruppo c’era lei, R. Al contrario di G., era casinista per natura. Era arrivata a prostituirsi per procurarsi la roba, era una ragazza madre. Era sieropositiva.
In quel periodo cominciai a frequentare la comunità con assiduità, riuscimmo perfino a tirare fuori un numero unico di un giornale e, con il ricavato della pubblicità, la comunità riuscì a comprare un calcio-balilla usato.
Spesso mi fermavo anche a pranzo. A tavola R. faceva di tutto per sedersi vicino a G.. I ragazzi li prendevano in giro perché era chiarissimo che lui aveva fatto colpo e R. non era tipo da arrendersi facilmente. Per quel che la situazione consentiva, io cercavo di strappare dei sorrisi, specialmente con lo scherzo della Federcaccia. Niente di che. Un giorno eravamo a tavola.
Dalla sede principale di Santa Marinella era arrivata la psichiatra della comunità. Gli ospiti erano invitati a parlare, a dire qualcosa. Non so come accadde, né come mi venne in mente. A un certo punto chiesi di intervenire. Era la prima volta che Zaira, la psichiatra, mi vedeva. Esordii sotto lo sguardo compiaciuto di Angela, la direttrice, e tenni banco per una decina di minuti lamentando l’andatura della stagione venatoria. Più leggevo la sorpresa e lo stupore negli occhi dei commensali, più portavo il discorso per le lunghe. Alla fine, dopo una pausa teatrale – penso si dica così, non ho mai fatto teatro – esclamai: “Scusate, ma è qui la riunione della Federcaccia?”.
Esplosero tutti in una fragorosa risata. Tanto che una delle ragazze, che oggi è mia amica su Fb, mi propose di rifarlo – la accontentai – durante la festa di saluto nella struttura di prima accoglienza del gruppo di cui faceva parte R.. Nello sguardo del prete, prima che lo scherzo si concludesse, lessi propositi non proprio pacifici.
La corte della nuova arrivata per G. andò avanti per qualche mese. Alla fine lui cedette e visto che gli ospiti non potevano avere storie tra di loro, se non ricordo male, gli fu concessa una specie di dispensa. Qualche tempo dopo – nel frattempo mi ero sposato, non frequentavo più la comunità – ricevetti l’invito al matrimonio di R. e di G. Scelsero di sposarsi dove si erano conosciuti. In comunità. Fu una cerimonia bellissima.
Finito il programma di recupero, presero casa in paese. Lei lavorava come sarta, lui come muratore. Seppero resistere alle “sirene” di qualche spacciatore che gli si presentava sotto casa, grazie anche alla presenza del bambino, che si era nel frattempo molto affezionato al suo nuovo papà (quello naturale non aveva voluto neppure riconoscerlo) e che oggi dovrebbe avere intorno ai venti anni. G. non aveva studiato molto, ma vederlo andare a prendere “suo” figlio da scuola e aiutarlo nei compiti è una cosa impossibile da dimenticare.
Io avevo avuto nel 98 il mio primo figlio, Donatello, nato il 25 novembre. Me li ricordo ancora R. e G. che vengono a casa il giorno dell’Immacolata per vederlo. Tempo dopo, in alcune occasioni, io e la mia ex moglie chiedemmo a loro la cortesia di tenercelo quando avevamo appuntamenti di lavoro.
Poi li ho persi di vista, qualche sporadica telefonata, dove mi dicevano che si erano trasferiti nel paese di origine di lei, nel Nord Barese e che lui continuava a fare il muratore.
Perché ho voluto raccontarvelo? Ho visto ragazzi che non ce l’hanno fatta in quella comunità. Alcuni sono ricaduti, altri, uccisi dall’Aids, non ci sono più. Ogni tanto le storie a lieto fine meritano di essere conosciute.