Dei tanti, efferati, presunti omicidi di Stato resta spesso solo un referto. Niente colpevoli, responsabili, movente, arma. Restano un macabro resoconto del medico legale, e il brivido della tortura che potrebbe essersi protratta per giorni inesorabili.
Della morte di Giulio, dottorando italiano a Cambridge di stanza al Cairo, sappiamo quasi tutto. Il colpo mortale al collo, le unghie strappate, le orecchie mozzate, il corpo violato. Tutto, tranne quello che è necessario sapere e, cioè, se le istituzioni – civili o militari – di un Paese con cui il nostro intrattiene buoni rapporti di vicinato abbiano causato il massacro di uno studente – poco importa se direttamente o per via di un incastro di complici omissioni. Non lo sappiamo, e ho come il sospetto che poco ci importi. Viceversa, è indispensabile, doveroso e urgente capire che volto (o che uniforme) abbiano gli aguzzini di Giulio. Non perché ci servano dei dannati su cui riversare il nostro rancore, ma perché – in assenza di altro – vogliamo aggrapparci alla chiarezza.
Della morte di Giulio, i cui interessi lo avevano portato in giro per il mondo, sappiamo tutto. Con perizia. Sappiamo anche – cosa ancor più grave – che esiste un flebile oppure robusto collegamento tra l’attività di ricercatore e il suo sequestro, durato quasi dieci giorni e culminato in un’esecuzione. Per questa ragione, fossimo davvero alla ricerca di una verità in grado di diradare la coltre di ambiguità sul caso delittuoso, potremmo raccontarci la seguente versione: Giulio Regeni aveva sete di conoscenza. Di quella sete è morto. I suoi contatti, utili a capirci di più su una faglia geopolitica del tutto instabile, il suo desiderio di approfondire la situazione di un Paese oscillante tra una dittatura e un regime potrebbero averlo condannato senza appello.
Della morte di Giulio, a cui ossessivamente mi capita di pensare, si è scritto il giusto. Non un caso da prima pagina, se non nei giorni immediatamente successivi al ritrovamento del cadavere, né una vicenda del tutto trascurata – d’altronde mancano molti dei requisiti per fare di una storia una notizia. Poche vigorose denunce, una famiglia normale e silenziosa nel lutto, un’affiliazione politica imprecisata. Sono scesi in piazza i suoi colleghi, pochi coraggiosi egiziani indignati, alcuni ricercatori tramortiti da una vicenda tanto impensabile. Nelle ultime ore, si è riversato sulle pagine di molte testate un flusso montante d’insofferenza per la pericolosa assenza di sviluppi nelle indagini. Ma qualcosa ci dice che, di qui a poco – il tempo che i palinsesti siano riscritti – potrebbe arrivare l’estrema condanna del dimenticatoio.
Della morte di Giulio, di cui pure non tornano moltissimi elementi, esiste anche una narrazione romantica. Corretta da un punto di vista concettuale, ma ingenerosa. Regeni – stando ad alcune esemplificazioni – rischia di essere ridotto a mascotte di quanti hanno poca difficoltà a montare su un aereo e costruire legami in città diverse da quella in cui hanno frequentato l’asilo. È, per l’appunto, una lettura plausibile, ma incompleta. Giulio, ma lo dico in punta di piedi, rinunciando a ritenere universale un mio timido convincimento, è rimasto vittima della sua attività. Non tanto del suo status, quello di operatore della conoscenza – per usare una formula da sindacalista – o di giovane ricercatore esperto di Medioriente o, ancora, di cervello in fuga figlio della generazione Erasmus – qualche dio mi perdoni per questa etichetta rancida.
Della morte di Giulio, scomparso nel quinto anniversario delle sollevazioni che portarono alla destituzione dell’allora presidente Hosni Mubarak, occorre probabilmente interrogarsi in senso più ampio. A Regeni i carcerieri potrebbero non aver perdonato la curiosità. Il dottorando stava forse indagando il ruolo, per certi versi sedizioso, di un’associazione di venditori ambulanti avversa al governo di Al Sisi. Senza scadere nella polemica, finora nessuna voce grossa si è levata. In molti hanno vergato appelli accorati affinché, insieme al feretro, le autorità egiziane possano riconsegnarci una verità “non addomesticata”. Una verità che non sia il punto di equilibrio (compromesso, si direbbe) tra la tutela di vulnerabili partenariati economici e la necessità di assicurare un’umanitaria, seppur postuma, reazione a un atto violento. C’è un auspicio a cui votarsi: che possa tormentarci la stessa sete che ha ammazzato Giulio.
Della morte di Giulio, avvenuta in un giorno ancora non identificato, si è anche detto che sia attribuibile a un incidente stradale. Stando al dato statistico, potrebbe essere così. Vorrà dire che ci si dovrà concentrare sul livello di congestione del traffico, o dei traffici, che attraversano il Cairo. Fuor di metafora, il dramma di una morte forestiera in un paese della sponda scomoda del Mediterraneo comporta anche la somministrazione globale di un dubbio atroce, e cioè che la scomparsa di Giulio non sia così solitaria. Che i metodi efferati di una premurosa longa manus di chissà quale mandante possano essere usati molto più di frequente di quanto arrivi alle nostre orecchie. Se così fosse, a Giulio andrebbe spiegato – senza troppi imbarazzi o ritardi – che sono stati attivati tutti i canali in grado di assicurare all’opinione pubblica internazionale che la sua fine sia una tragica eccezione.
Della morte di Giulio, sulle cui cause procura locale e Ministero dell’Interno hanno versioni contrastanti, è stato saggiamente scritto che si tratta di un attacco al cuore dei valori che animano la comunità accademica: indipendenza di giudizio, rifiuto del dogmatismo, assenza di frontiere, volontà di incidere sul tessuto sociale. Vengo ad un dato intimo, dunque insignificante. La prima volta che ho visto il volto di Giulio su un volantino che ne denunciava la scomparsa, non ricordo che giorno fosse, ero in università. Non credo di fare un torto alla verità, se insisto su questo dato preoccupante. Potrebbero aver ucciso Giulio perché voleva vederci chiaro. Perché aveva scelto, insaziabilmente, di essere al centro del suo mondo. Poco contano la situazione migliorabile dei ricercatori nostrani, la disattenzione che gli era stata riservata da un quotidiano che ora è tornato sui suoi passi, il dato generazionale rincorso dai sempre scaltri commentatori.
Il sorriso di Giulio certamente non finirà sulle magliette dei ragazzi suoi coetanei, tanto affollato di croci è il cimitero delle icone. Possa tuttavia la sua sete di conoscenza – me lo auguro con tutto il cuore – continuare a scavare vie tenaci nel gran rumore di niente.
“They figured he was a spy,” one of the officials said. “After all, who comes to Egypt to study trade unions?”