Sono arrivato a Milano ad agosto del 2008, in un’era che – a voler essere vagamente storiografici – si potrebbe definire “avanti Esposizione Universale”. Era per l’appunto l’anno in cui la municipalità si era aggiudicata la possibilità di ospitare il gigantesco parco a tema reso noto anche per via delle interminabili code fuori dal padiglione del Giappone. Bisognerebbe aggiungere – giacché dentro la grande storia c’è sempre un pertugio per le vicende piccolissime – che il giorno in cui ho scelto di immatricolarmi all’Università di via Sarfatti, il telegiornale serale diffondeva l’annuncio della vittoria italiana “contro la turca Smirne”. Quella sera di marzo, ignaro di ogni sviluppo, la notizia mi era sembrata tutto sommato una buona cosa. Si sapeva poco di Expo, in generale, e la manifestazione non attraeva neppure troppa curiosità all’epoca – probabilmente anche in ragione di un logo discutibile, che in pochi ricorderanno, poi sostituito da quello multicolore. O forse, più semplicemente, nel 2008 eravamo digiuni di, come si dice, storytelling, filtri seppia e mercati metropolitani. Sono arrivato a Milano in treno, con molte vettovaglie – perlopiù inutili – e tanto bucato – poi rivelatosi comunque non sufficiente. Ricordo la diffidenza preliminare nei confronti del trasporto pubblico, nella città di sotto. Mi ero fatto un’idea per così dire romantica del tram 9: intuivo che portasse grossomodo ovunque, disegnando una semicirconferenza quasi perfetta. Ammiravo e in un certo senso sopravvalutavo le prestazioni della linea 9, tanto che, per i primi tempi, l’ho usata per andare in Stazione Centrale partendo dalla zona del Quadronno, una bomboniera a sud del centro – quadrilatero di ospedali molto apprezzati e panini ben imbottiti e cortili molto ovattati, sirene delle ambulanze a parte. La faccenda insensata del tram 9 al posto di una più rapida metro gialla che corresse da Missori in Centrale testimonia – oltre alla scarsa penetrazione di GPS e mappe – una mia visione diciamo pure tolemaica della geografia milanese.
Mi ero insomma convinto che Milano fosse rotonda. Non mi sbagliavo di molto. Nel 2008 Milano era rotonda per davvero. E non solo perché effettivamente la struttura del reticolo urbano è fatta di cerchi concentrici, in parte approssimativi e dilatati, talvolta ricamati col goniometro (è il caso della Cerchia dei Bastioni, fascia di contenimento del lignaggio più puro). Non solo perché, guarda caso, la struttura del capoluogo ha pervicacemente continuato a modificare la sua originaria griglia ortogonale. Neppure perché, come hanno scritto Bartezzaghi ed Eco, Milano è sì una città circoncentrica, ma fatta di raggi sghembi. Ero convinto, dall’alto della mia milanesità esordiente, che Milano fosse rotonda, per una ragione più profonda: non avevo ancora incontrato la sua terza dimensione. Improvvisamente, forse più per motivi legati alla necessità di abbattere i tempi di percorrenza, questa illusione di circoli e orbite prese a vacillare. Scoprii l’efficienza discreta dei convogli sotterranei. Negli ultimi anni, complice una sorta di contagio tra concittadini garbati, Milano ha definitivamente smesso di essere rotonda. Si è scoperta tridimensionale, a forma di Milano. Se mai mi dovessero chiedere che forma abbia oggi il capoluogo, risponderei pressappoco così. A forma di Milano. D’altra parte, ho fatto in tempo a laurearmi e a rimettermi a studiare, mentre Milano (mi) cambiava. Comprenderete il senso di questa laica devozione. Intendiamoci: non ho speso tutte queste righe per condurvi dritti al cuore dell’hype. Al contrario, vorrei che ci tenessimo alla larga da questa gettonata discussione montata negli ultimi semestri: se sia Milano la ritrovata capitale d’Italia, o se – nell’eterna rivalità con l’Urbe – la città lombarda abbia ormai raggiunto una propria incolmabile superiorità. Negli ultimi tempi, infatti, si sono sprecati i pezzi che reiteravano l’usurato beauty-contest tra le due città, con approfondimenti curatissimi sulle virtù impareggiabili o le analogie malcelate, o addirittura con proposte di unificazione ideale trai due centri in un “programma Erasmus sull’alta velocità, per rendere i milanesi più ironici, e i romani meno trucidi.”
Ho anche collezionato una parte, consistente ma non esaustiva, del florilegio di panegirici che hanno glorificato la prestanza ora amministrativa, ora umana, ora infrastrutturale della città meneghina. Me ne sono nutrito talvolta voracemente, spacciando su facebook certi pezzi che potevano arrivare a titolarsi, mi perdoni Aldo Nove se lo uso per culminare un ragionamento brutale, “Milano è bellissima ma non diteglielo.” Le articolesse di questo tenore si sono gonfiate, di numero e di afflato, a partire dallo scorso anno – o forse ho cominciato io a prestarci io più attenzione. Gli è che, in ossequio al ciclo della profezia che si autoadempie, mi è parso che negli ultimi periodi Milano sia diventata più prelibata, più iconica, più narcisa anche. Confermandosi “porosa e affabile”, come ha scritto Il Foglio, in un pezzo ricognitivo sulle tante identità milanesi. In questo settennato, per meriti plurali, la città si è riappropriata della propria eredità. Riscoprendosi europea di tendenza meneghina, e capitalizzando – si potrebbe dire quasi canonizzando – “un insieme di valori, regole condivise, stili di vita”. A pensarci bene, potrebbe anche darsi che a cambiare progressivamente siano stati i Milanesi. Sull’onda di un trend globale di diffusione, ombelicale ma anche commerciale, della raffinatezza. Di fatto, esiste la possibilità che sia maturata in questi anni una generazione di tizi in grado di distinguere un “cappuccino” da un “flat white”, come l’hanno ribattezzata gli economisti. Evidentemente, tale educazione sentimentale per l’effimero ha delle implicazioni che il mercato non si è fatto sfuggire, investendo in ammiccamenti capaci di rendere il piacere “istantaneo”, “esclusivo”, “irrinunciabile”. La sovrapposizione di coincidenze e piani ha reso Milano “a place to be”. Che diavolo è successo alla città? Perché tutta questa voglia di essere presenti, arrivando a congestionare la zona della Darsena per gustarsi quattro lanterne inzuppate? Probabilmente Milano ha ritrovato la sua identità di hall, più che di gate.
Senza dubbio Milano è un passaggio. Un trampolino, un ascensore. Un moto per luogo, figlio del dinamismo e del riscatto. Ma Milano è soprattutto un centro fisso, un aggregatore di comunità e uno stimolatore di pragmatismo. Deve questa sua anima a una versione, singolare ma non al punto da sfiorare l’eresia, del cattolicesimo ambrosiano – religione del fare presto anche sul marciapiede, dell’investire sulla resistenza più che sull’accelerazione, dell’apprezzare l’abnegazione più che l’empatia, del solidarizzare con disinteresse e parsimonia. Più banalmente, anche solo mutuando la brillantezza del “Si ringrazia la regione Puglia per averci fornito i milanesi”, senza neppure ricorrere a dopate indagini sociologiche, c’è da ammettere che l’apostasia di quanti hanno scelto Milano genera l’impasto di questo meticciato cittadino. Il fulcro di questa hall in cui tutto sembra raggiungibile – oggi a rischio stereotipo – è giocoforza l’università, e più in generale il settore education. Per quello che ne so, ed esclusi i presenti, la riserva aurea d’ingegno è stipata nella costellazione di atenei che, con i loro campus diffusi, fanno di Milano una potenziale Boston col risotto. Sul fronte istituzionale, resta ancora molto da fare: agevolando il raccordo tra i poli educativi, per scommettere su specializzazioni sinergiche ed evitare ogni campanilismo. Anche in questo caso, fuorisede e pendolari sono l’innesto che curva le virtù locali e le trasforma in ambizioni generali. Chi approda a Milano si condanna a innamorarsene e cerca ostinatamente di tessere nuove alleanze con chi ha compreso che questo posto è l’altrove in cui le cose accadono prima che in ogni altro pezzo d’Italia. Per una ragione anche semplice: Milano ha scelto, forse inconsapevolmente, di essere il nodo di una rete europea. In questo consiste la sua missione sediziosa: puntellare le facciate delle nostre architetture politiche, e – soprattutto – generare futuro. Grazie ad “una comunità frenetica che parla la lingua del lavoro che non c’è più e allo stesso tempo si reinventa a una velocità impressionante” (è sempre Nove che scrive).
Ho molto timore di chi definisce Milano un “laboratorio”, e non solo per la sfiga che questa etichetta si porta dietro. O per l’idea superficiale che una città possa essere una sorta di appalto senza gara al fato gentile. Milano è esattamente l’opposto. È costanza, non entusiasmo. Fiducia, non credito. Approfondimento, non approssimazione. Irriverenza, non compiacenza. Impresa, non burocrazia. Irritualità, non conformismo. Della struttura orbitale ha conservato una forza centripeta che porta verso l’Uomo, tra Cordusio e San Babila. Per questo non può tracurare le diseguaglianze che fioriscono all’ombra dello skyline. È questa la sua dimensione complementare, in cui nessuno è forestiero e ogni idioletto vale: «Dura minga, va a ciapà i ratt, top questa startup» (il trittico è di Rossari, ma si consiglia anche Dalla, per non perdere la poesia). Attenti tuttavia a non confondervi, e considerare questa città come l’avamposto di desideri off-shore. Milano si nutre di responsabilità e consapevolezza. Le fiere, gli aperitivi, l’Oncologico, i caffè, Brera, i tram, le terrazze, Uber, le trattorie, i musei, Piazza Affari, i Navigli, i concerti, Porta Nuova, gli hamburger, l’Opera San Francesco, il design, la Sormani, Isola, i giardini, le fondazioni, le industrie, le Enjoy, i grattacieli hanno in comune una radice di tenacia, senza eroismi. Milano è una città neutra, pronta a colorarsi di fortune o sventure. È, soprattutto, una città talmente interrelata da ritenersi autosufficiente. Le case di sondaggi che finora hanno provato a interpretare i gusti dei milanesi intorno al loro futuro sindaco sono rimaste al palo, e hanno ripiegato in un prudente “too close to call.” Non è tanto un segno dei tempi, quanto dei modi. Chi si troverà ad amministrare Milano dovrà fare i conti con una certezza inoppugnabile, maturata in anni di crisi e ripartenze, «l’idea di una città che ce la fa da sola, in cui la politica semplicemente ‘conseguente’ a ciò che fa e chiede la città».
La compostezza di questa campagna elettorale testimonia una certa convinzione delle due tifoserie (neanche tre, ché i grillisti non sono mai esistiti in città – e qualcosa vorrà pur dire). Se davvero vorrà dominare il mondo nell’epoca delle “nazioni disfunzionali e città in ascesa”, il prossimo sindaco dovrà impegnarsi ad assecondare quel genuino Rinascimento policentrico che ha innescato micro-rivoluzioni in tutti i quartieri. C’è bisogno di un sindaco in grado di fare dell’istituzione comunale una piattaforma abilitante per quanti abbiano idee da mettere a frutto. La ricetta, in salsa milanese, prevedrebbe il contenimento dell’intrusione pubblica nella vita dei cittadini. Se è vero che le città sono “the primary incubator of the cultural, social, and political innovations which shape our planet”, da Milano potrebbe arrivare una lezione interessante. Di cosa c’è bisogno, insomma? Di impresa, dannatamente. Di internazionalizzazione, a pacchi. Di progetti di impatto, fuori dalla retorica dell’enoteca / coworking / ciclofficina. Non di contestazioni, ma di nuove ambizioni ha bisogno questa città. Non ho gli strumenti per stabilire se davvero, come scrive il manifesto, “il nuovo giovane proletariato urbano è tramortito, disgregato e inconsapevole.” Credo invece che nei prossimi anni occorrerà mettere in campo ogni sforzo per fare di Milano un epicentro attrattivo per inclusione e competizione. Il capoluogo deve la sua relativa ricchezza al ruolo che, negli ultimi decenni, hanno rivestito l’imprenditoria – anche quella a vocazione sociale – e in particolare il terziario, compreso quello avanzato. Per questo, chiunque si trovasse ad amministrare questa città dovrà perdere il sonno alla ricerca d’investitori che – anche loro – prendano a considerare Milano “a place to be”. D’altronde, come ha scritto Sarica, “non si può sperare di sistemare i problemi complessi di una città livellandola verso il basso, chiedendo di costruire tetti sul versante delle opportunità individuali.”
La laboriosità, industriale e culturale, di questa città si nutre proprio di spinte collettive imprevedibili e alleanze tra uomini generosi. A questa apertura totale non occorre mai rinunciare. Di questo fermento ci si dovrebbe drogare, per imparare a respirare innovazioni e contraddizioni. Come forma Milano, nessuno mai.