Sono passati 6 mesi dal primo dei tre avvenimenti elettorali che hanno caratterizzato il 2016. Oggi quell’evento, che per la prima volta ha segnato l’uscita di un Paese dal processo, nato dopo la Seconda Guerra Mondiale, di integrazione europea è raccontato su facebook tra ironia e sarcasmo, sottolineando come i problemi legati alla Brexit fossero gonfiati da giornali e televisioni per chissà quale strano complotto.
A prima vista a parte il crollo della sterlina(!) nei giorni successivi alla Brexit e a vari progetti di sbaraccare gli uffici di Londra da parte di banche e fondi d’investimento non vi sono state conseguenze. Già.
Purtroppo non è dello stesso avviso il Primo Ministro Theresa May che in un’intervista del 27 novembre ha confessato quanto la notte non sia più il momento dei sogni e del riposo ma ormai quello dell’inquietudine. Gestire questa uscita, in modo dignitoso e con meno oneri economici possibili, è lo sforzo che sta facendo il governo inglese anche se al momento la confusione regna sovrana. Oltre a non esserci nessuna road map, davanti alle pressioni della Commissione Europea per avere almeno un quadro della situazione e dei tempi tecnici il governo britannico non ha fatto che rilanciare la palla. Vediamo: 18 mesi? No 24. Si fissa la data per l’autunno 2018? No, facciamo 2019.
Anche i ricorsi presentati presso i tribunali inglesi per ostacolare l’uscita a volte sembrano più rappresentare dei finti ricorsi volti a prendere tempo e a cercare di capire quali siano i vantaggi migliori. Perché quando si parla di Brexit o non Brexit è sempre di vantaggi e svantaggi economici che si parla. E non è un caso che il referendum italiano sia stato visto da Londra come una interessante novità. E che il tifo abbastanza evidente per il no, a leggere alcuni giornali d’oltremanica, andasse nella direzione migliore per l’uscita. E cioè l’effetto domino No al referendum, crollo di Monte dei Paschi e successivo disfacimento dell’UE per poter ridiscutere la Brexit con ogni singolo paese invece che con l’UE sembra al momento allontanarsi. L’Italia e l’Unione Europea hanno appena sottolineato la necessità di salvare MPS, ad ogni costo.
Se per Brexit siamo solo all’inizio, chi di scelte ne ha già fatte è il neo (sarà in carica dal 1 gennaio) Presidente Donald Trump. Il suo essere contro e la simpatia per non essere un uomo vicino all’apparato repubblicano, né tanto meno a quello democratico (anche se in passato finanziò la campagna di Bill Clinton per interesse) stanno dando i primi frutti. Non buoni.
Per quanto riguarda il surriscaldamento della terra, l’accordo internazionale sul clima firmato a Parigi e le industrie di energia alternativa (quelle che per i grillini in Italia dovrebbero essere il primo punto del programma elettorale, presentato subito dopo la vittoria del NO dalla coppia DiMaio&DiBattista) arrivano cattive notizie. Sarà con molta probabilità un lobbysta del petrolio, Scott Pruit, a gestire l’EPA, l’Agenzia per l’Ambiente americana. Un ex procuratore che non crede al riscaldamento terrestre e che non condivide l’accordo sul clima di Parigi.
Il secondo nodo già venuto al pettine riguarda i rapporti internazionali. Ribadito che gli USA non sono Malta vedremo cosa scaturirà dalla scelta di Donald Trump di ridicolizzare la Repubblica Popolare Cinese. Le notizie che arrivano dall’Asia non sono buone. C’è grande preoccupazione per ciò che sta dicendo e pensando il futuro Presidente. Non ancora in carica ha già rotto con la Cina, facendo saltare i nervi a un paese con cui occorre dialogare e prefigurando una guerra commerciale. Abbandonare la politica “della sola Cina” intrapresa da tutti i Presidenti americani da Nixon in poi significa rompere su tutte le collaborazioni e i partenariati internazionali. E considerando che quello con la Cina era un punto fermo non si può non saltare sulla seggiola pensando a cosa potrà dire o fare in Medioriente nei prossimi 4 anni. Intanto, dai curdi siriani che sognano uno stato alla Turchia di Erdogan che invece si batterà perché ciò non avvenga hanno alzato le orecchie. Anche qui si potrà dire NO, basta solo capire a chi.
Il terzo evento riguarda il NO al referendum costituzionale italiano. Atteso da molti per capire se l’Italia sarebbe riuscita a cambiare sistema costituzionale, dopo 40 anni di promesse, il risultato schiacciante ha palesato un 60% di elettori contrari per svariati motivi. Michele Serra come altri hanno analizzato questa percentuale dividendola in due o più segmenti. Chi era contro la riforma, chi contro il governo Renzi e chi contro a prescindere (si chiami PD, SI, CGIL…perché casta). Dalle analisi è emerso con chiarezza come i due ultimi segmenti costituiscano la maggioranza del NO e siano concentrati sulla voglia di tornare alle elezioni immediatamente. Cosa che viene scongiurata dal primo segmento del NO, quello che non ha per niente apprezzato il tentativo di modificare la Costituzione e che non disdegnerebbe l’uscita di scena di Matteo Renzi. Anche qui, per il momento si sono visti pochi effetti. L’ennesima crisi di governo della storia repubblicana (65 governi su 70 anni). Assenza della legge elettorale, che sarà modificata dalla Consulta e che già Renzi, sotto le richieste della sinistra del PD, aveva dovuto modificare. Terzo piccolo immediato effetto: il crollo di MPS e l’incognita sul suo futuro, vera grande spina nel fianco per la stabilità dell’Europa.
Questo è lo stato delle tre scelte ANTI sistema. Tre scelte estreme e legittime, che raccontano il disagio crescente delle nostre società. Pochi soldi pubblici, grandi interessi finanziari e una classe media che dagli anni 80 ha iniziato a restringersi sempre più, anche a causa della propria ingordigia.
A guardare questi primi effetti il 2017 si prospetta come un altro anno di duro lavoro, ma stavolta dovranno essere messe alla prova soprattutto le forze ANTI sistema, capaci o incapaci di concretizzare questi mandati popolari.