Da alleato NATO e di Obama, che erroneamente si sono fidati del leader del AKP, concedendogli per anni di sostenere le formazioni anti Assad, poi scopertesi né democratiche né laiche ma cugine o addirittura sorelle dell’ISIS, a nuovo alleato di Vladimir Putin.
Alle prime avvisaglie di guerra civile, siamo nel 2011, Recep Erdogan, Presidente della Turchia, iniziò a sognare una Siria sotto la propria influenza, politica ed economica, emancipata dalla famiglia regnante degli Assad, e per giunta islamizzata. Un sogno che per anni è stato alimentato dal corridoio che Ankara ha aperto ai foreign fighters europei e alla vendita di armi a ribelli che si spacciavano per democratici ma che democratici, come si è scoperto in seguito, non erano.
Tardivamente se n’è accorta anche l’amministrazione Obama, dapprincipio credulona e ben felice di vedere un dittatore detestato cadere, fiduciosa che la primavera araba in Siria si trasformasse in una rivoluzione democratica.
È in questo momento, siamo nel 2013, che l’Isis va affermandosi tra le tante forze presenti come quella più forte, organizzata e ben finanziata. La prepotenza, la crudeltà e la spietatezza dell’organizzazione con un piede in Siria e l’altro in Iraq creerà una vera prateria. Ed è in questo momento che gli Stati Uniti capiscono di aver fatto un grande errore a fidarsi di Erdogan, incapace di controllare (per molti complice) ciò che all’inizio sembrava una democratica rivolta e che velocemente si sta trasformando in un movimento integralista, illiberale, anti democratico e anti occidentale.
Due fatti importanti però cambiano nel giro di poco tempo l’intero conflitto. Il primo riguarda proprio gli Stati Uniti. L’Amministrazione Obama capisce che l’unico soggetto di cui ci si possa fidare in quell’area sono i curdi. Da sempre accantonati, privi di una nazione e dislocati tra quattro stati (Iraq, Siria, Turchia e Iran) sono gli unici che combattono per un ideale politico non religioso e che guardano alla democrazia e alla libertà con speranza. Il secondo, l’ingresso prepotente della Russia nella guerra, sposta le sorti del conflitto, fino a quel momento sfavorevoli ad Assad, verso una riconquista del potere.
Dunque, l’irruzione in guerra della Russia e la percezione che gli Stati Uniti non si fidino più di lui per sostenere al contrario i curdi, spinge il Sultano a rivedere frettolosamente i propri piani e di conseguenza a rompere le trattative di pace in corso da anni con i curdi turchi del PKK.
Il pericolo per Erdogan si materializza con la nascita di un nuovo stato, già di fatto esistente, il Rojava, nel Nord della Siria, al confine con l’area curda della Turchia.
Uno stato indipendente curdo ai propri confini diventa inaccettabile, tanto da spingere Erdogan a dichiarare guerra a qualsiasi forma di gruppo curdo organizzato, dentro e fuori dalla Turchia, incarcerando ancora oggi persino deputati del partito liberale curdo (HDP). I curdi del PKK dal canto loro risponderanno con una serie di attentati contro la polizia (non i civili, come fa l’ISIS).
Ma l’ipotesi di uno stato curdo ai propri confini, con il tacito assenzo americano e gli eventi bellici ormai sfavorevoli per le milizie filo turche costringono Recep Erdogan a un altro drastico cambio in politica estera. Uno dei più repentini e tortuosi che la storia delle relazioni internazionali conosca. Il riavvicinamento alla Russia di Vladimir Putin.
Dopo 6 anni di guerra, possiamo dire che il Sultano ha pescato e giocato tante carte, cambiando strategia varie volte. Oggi il suo governo, dopo aver portato la Turchia sull’orlo di una guerra civile, tenta di far finta di nulla, intenzionato a giocare il nuovo ruolo di mediatore tra la Russia, Assad e l’Iran da una parte e gli ultimi gruppi “ribelli” (o islamisti) ancora sul campo.
Asciugarsi la fronte e sorridere, fingendo di aver vinto in attesa che arrivi il 20 gennaio, l’insediamento di Donald Trump, che insieme a Wladimir Putin dovrà ridisegnare e trovare un accordo politico su una vasta area geografica. E anche per vedere se è ancora tempo di capriole.