The OA è una serie tv di otto episodi, su Netflix dal 16 dicembre. Una serie praticamente impossibile da riassumere e spiegare: la sensazione di non aver capito nulla si mantiene salda nel corso di tutte le puntate, cristallizzandosi con l’ultimo episodio che reinterpreta tutta la serie. Rimanendo volutamente ambigua. Creata da Brit Marling e Zal Batmanglij, ha stupito pubblico e critica per la sua originalità e l’immensa difficoltà a incasellarla in un qualsiasi genere tradizionale. Premesse da thriller psicologico, frammenti di horror, dramma familiare, sci-fi e fantasy. Un sottofondo romantico, se può intendersi romantico l’amore tra due protagonisti che vivono uno a fianco all’altro per sette anni, senza mai toccarsi. I generi tradizionali sono reinventati e piegati su se stessi da The OA, in un universo folle e onirico quale è quello creato da Prairie, la sua protagonista. Crederle o no indirizza l’interpretazione che si voglia fare di ogni puntata o frammento di essa.
The OA può ricordare ad alcuni Stranger Things, rimanendo in ambito Netflix, rientrando nella categoria nostalgica del soprannaturale anni ’80. O ancora Black Mirror e la sua inquietudine, Lost o Westworld, come serie capace ad ogni episodio di porre nuove domande senza mai rispondere alle precedenti, o quasi. A me ha ricordato “The Leftovers”, il cinema gelido e cupo di David Fincher o le allucinazioni di Tim Burton.
La verità è che non è nessuna di queste cose, o forse un pizzico di tutte. Certamente è un prodotto rivoluzionario.
Netflix ha presentato The OA promettendo di «offrire agli spettatori un’esperienza unica, che reinventa il formato narrativo di lunga durata». Un tentativo ambizioso, per la casa leader dell’intrattenimento online. Un esperimento che vale comunque la pena di vivere e osservare: anche per chi non ne rimanga soddisfatto (lo dico subito e dichiaratamente: non è il mio caso).
The OA è così particolare, che molti critici si sono trovati in difficoltà nel recensirla. L’Economist ha scritto che The OA mostra che Netflix ha una grande “ambizione creativa“, apprezzando che possa e voglia sfruttare la sua forza commerciale per produrre anche cose di nicchia, e non solo serie costose e “per il grande pubblico” come The Crown. Certamente Netflix ha mostrato coraggio.
Spiegarne la trama è difficile e insieme assurdo: troppo complessa, piegata su se stessa. Il vero punto di forza di The OA risiede proprio nel fatto che ognuno può ritrovarci quello che vuole. Non esiste un finale vero: ognuno può ricostruirselo. E sono veri tutti.
Da qui in poi è spoiler.
Ho amato follemente il finale di The OA. L’intera serie è totalmente spiazzante, e il suo culmine arriva sapientemente negli ultimi dieci minuti dell’ultima puntata.
Per questo commenterò soltanto il finale, lasciando i commenti sull’intera serie che non ha neppure senso da osservare se non dall’inizio alla fine, dai primi secondi agli ultimi in un lungo respiro o sequenza visiva. Secondo le interpretazioni che si possono dare del finale, ogni frammento di ogni puntata assume un significato completamente diverso.
Il finale è davvero, estremamente intelligente: perfetto, come finale di una serie tv. La sceneggiatura ha volutamente lasciarto un finale ambiguo, riuscendoci perfettamente. Non lascia alcuna risposta al tutto, dandone così la più forte. Lasciandola allo spettatore.
Molte le possibili interpretazioni: tre vanno per la maggiore, lasciando aperta comunque tutta una serie di sottointepretazioni o sottotrame. La verità dipende dal pensiero dello spettatore. Esattamente come la storia di Prairie: la prima domanda che si pone e si deve porre lo spettatore è “posso crederle?”. La verità è distorta, piegata: può essere scelta in un infinito menù di multiversi. E sono tutte vere. Realizzando quello che è il mondo di Prairie e The OA.
La prima interpretazione del finale di The OA, la più semplice, è che Prairie non dica la verità.
Lei è pazza, una malata psicotica, che ha passato tutto il tempo della sua sparizione suonando il violino in una stazione della Metro di New York. Creando la sua verità. È la più semplice, ma non per questo poco interessante: perché lascia capire quanto può essere complessa, difficile e profondamente drammatica la mente di una persona malata. Un labirinto e un abisso di dolore e sofferenza: con qualche scheggia di genialità. Perché una visione unica del mondo non può essere mai banale, e apparire quindi geniale. Insegna Erasmo da Rotterdam col suo Elogio della Follia.
Il mondo bianco e ovattato dove Prairie si risveglia alla fine non è l’ennesima esperienza post morte, ma un ospedale psichiatrico.
Gli amici di Prairie sono totalmente sedotti e affascinati da lei, esattamente come nella storia molti sono stati sedotti e affascinati da psicopatici e dai loro mondi. Come Charles Manson, per fare un nome. I suoi amici le credono, anche se cercando qualsiasi informazione sulla sua storia e degli altri rapimenti non rimangono che con un pugno di mosche in mano, o un video su YouTube di Prairie che suona il violino.
La seconda interpretazione si basa sulla teoria che Hap, il carceriere di Prairie, sia in realtà difeso dall’FBI e dal governo degli Stati Uniti. Il suo esperimento, del resto, non può certo essere giustificato dal governo anche sa capace di rivoluzionare lo stesso concetto di vita umana. Quindi è insabbiato, con buona pace di Prairie e degli altri ragazzi rapiti da Hap.
A sostegno di quest’ipotesi la presenza del terapeuta di Prairie, dell’FBI, nella sua casa in piena notte. Cosa ci faceva lì? Forse doveva lasciare quella serie di libri, teoricamente ordinati su Amazon ma intonsi, che spiegherebbero come Prairie stava creando la sua storia? L’esperimento di Hap fa parte di una cospirazione governativa molto più ampia, indagando sulle esperienza post morte e su tutta una serie di mondi paralleli? È del resto improbabile, per un uomo solo, costruire una prigione e un’architettura simile a quella di Hap.
L’interpretazione finale è quella che Prairie racconti effettivamente la verità, priva di strane teorie del complotto: tra angeli, demoni, esperienze post morte, sette anni di rapimento e un amore folle per Homer, nella sofferenza infinita.
La mia teoria personale è che Prairie spieghi come viviamo in un multiverso. Alfonso, l’amico di Prairie, fosse in realtà Homer in un altro universo o in un altro mondo. Poco importa quando o dove. Probabilmente Prairie non è mai fuggita dal suo carcere, riscoprendo la vista in un altro universo che si è creata in un’esperienza post morte. Così, i 5 amici delle sedute notturne sono in realtà i 5 amici del carcere. O forse no.
La realtà è che, alla fine, la migliore interpretazione è un mix di queste tre.
In realtà poco importa quali dettagli o quali parti della storia siano veri e quali no: il messaggio e il cuore è sempre lo stesso. Certamente Prairie ha vissuto intensamente e dolorosamente tutto il trauma della sua storia. Ma è accaduto veramente o se lo è creato nella sua testa? Poco importa. Forse non ha raccontata la storia di ciò che è accaduto davvero, o se ne è inventata una parte. Probabilmente non lo sa neppure lei. Ma per certo ha provato e ha vissuto qualcosa: le cicatrici, il dolore, la sofferenza. Gli altri dettagli non contano davvero.
Per certo viviamo in un multiverso. Ognuno può vivere la sua vita solo all’interno del suo corpo. Ma nella notte, nei sogni, vive già in un altro universo. Nella mente, può ricrearsene un altro. Dopo la morte, nessuno sa. Quale parte del racconto e della storia nella storia sia una metafora e quale no, tende a importare sempre meno mano a mano che la storia arriva alla sua conclusione. Lei ama Homer, che Homer sia o non sia. I suoi amici amano lei. La sua famiglia la ama. L’amore è vero. E l’amore muove tutta la serie tv. In un suo concetto un po’ assurdo e certamente rivoluzionario, quando due innamorati non possono neppure toccarsi. Assurdo e rivoluzionario come The OA, del resto.
Aspettiamo ora la seconda stagione, certo Netflix ha fatto centro.