Appena arrivato in ufficio questa mattina, mi hanno girato l’articolo di Flavia Perina sul degrado di Roma e sull’attuale giunta. Se non l’avesse scritto Flavia Perina, che seguo dai tempi de Il Secolo d’Italia, non l’avrei neanche letto: già mi ero dovuto sorbire l’intervista dell’ormai ex assessore Berdini che diceva di essere un coglione (sembrava Fini qualche tempo fa su Il Fatto Quotidiano: tutti questi uomini ormai anziani che si stupiscono che la vita, e ancor di più la politica, possa colpirti alle spalle anche – e soprattutto – all’apice della carriera o anche – perché no? – al suo crepuscolo).
Per di più sono giorni che leggo con noia mortale le vicende della giunta Raggi, come se fosse una novità che il sindaco di Roma (personalmente, non mi piego a questa idiozia di chiamarla “la sindaca”) appena eletto sia un incapace, circondato per lo più da incapaci. Credo che i romani (non io, personalmente al ballottaggio ho votato Pio IX per il ritorno del Papa Re) votando la Raggi sapevano di votare un’incapace, e non capisco quindi dove sia lo scandalo.
Vivo a Milano da anni, ma ho ancora la residenza a Roma. Un vezzo? Non lo so. Un po’ mi sento come il mio professore di lingua francese all’università che da decenni in Italia ancora non aveva preso la cittadinanza italiana. Assicuro a me stesso che non è disprezzo verso Milano, e neanche un fortissimo rigurgito identitario: voglio soltanto essere cittadino dell’Urbe, nonostante per questo pago le tasse comunali più alte d’Italia e non posso vedere i giallorossi liberamente in trasferta.
In questi anni di Milano, la domanda che più mi infastidisce e che tutti mi fanno è “Ma te che sei romano, come ti trovi a Milano? Non vuoi tornare a Roma?” ed è una domanda che riempie serate al pub, cene al ristorante, uscite fuori porta e prime conoscenze. E’ una domanda stupida, perché ha una risposta ovvia: Roma è casa mia.
Ed essendo romano, riesco a capire anche il punto di vista romanordcentrico di Flavia Perina che parla di Ponte Milvio come se Ponte Milvio fosse Roma tutta: io che sono di Roma Sud, posso parlare di Centocelle, Tor Tre Teste e Tor Sapienza come se parlassi di Roma tutta.
Quindi, si, è vero, Roma fa schifo. E fa ancora più schifo quando vivi al nord tutta la tua vita e scendi a Roma una volta al mese per lavoro. Perché te ne accorgi: ti accorgi delle buche, ti accorgi dell’immondizia ovunque, ti accorgi dell’ansia quando devi prendere un mezzo pubblico perché potresti non arrivare mai a destinazione, ti rendi conto di cosa sia il traffico e l’inefficienza.
Ma come odio i nostalgismi, odio anche le drammatiche disamine sociologiche e non mi spenderò oltre nel narrare il male di Roma e delle sue periferie, perché non sono lo sceneggiatore di un documentario di Michele Santoro: se Roma fa schifo, è perché noi romani l’abbiamo voluta così. Cito Alessandro Giuli, ora direttore di Tempi che sulla sua ex rubrica del martedì su Il Foglio scriveva: “Roma fa schifo, ma anche i romani non scherzano. Parlo della Roma storica, perché l’Urbe intangibile riluce nell’eternità che non conosce prima e dopo, non può decadere. La città che abitiamo con il nostro io storico, questa sì, è un letamaio invivibile. La mia tesi è che i cittadini non sono meno responsabili dei cattivi amministratori. La sporcizia è un fatto culturale”.
Se dovessi pensare alla Roma storica, allora, quale sarebbe la mia soluzione? Un governo nazionale serio dovrebbe commissariare Roma: la città è fallita dal punto di vista economico, non esiste una classe dirigente capace di gestire questa crisi e nessun sindaco può razionalmente risanare le emergenze pensando di poter essere rieletto. Punto. Non c’è altro da aggiungere: non si capisce perché si è potuto commissariare una nazione e non si può commissariarne la capitale.
E se questo non dovesse succedere? E se questo declino continuasse ancora (con la Raggi o senza la Raggi)? Se così fosse mi piacerebbe sedermi con Gore Vidal, durante la scena di Roma di Fellini (il più bel film su Roma mai girato) ed ascoltare lo scrittore americano mentre risponde:
“Vi domandate perché mai uno scrittore americano viva a Roma. Prima di tutto perché mi piacciono i romani, che non gli frega niente se sei vivo o morto, sono neutrali, come i gatti. Roma è la città delle illusioni, non a caso qui c’è la chiesa, il governo, il cinema, tutte cose che producono illusioni. Sempre più il mondo si avvicina alla fine perché troppo popolato, troppe macchine, veleni. E quale posto migliore di questa città morta tante volte e tante volte rinata, quale posto più tranquillo per aspettare la fine da inquinamento o sovrappopolazione? E’ il posto ideale per vedere se tutto finisce oppure no”.
Staremo a vedere.