In uno scenario particolarmente sfidante l‘Eni a trazione Claudio Descalzi ha recentemente presentato alla comunità finanziaria il proprio piano strategico per i prossimi quattro anni. Il Cane a sei zampe prevede che la produzione di idrocarburi nel periodo considerato aumenterà del 3% all’anno (nel 2017 salirà del 5% rispetto al 2016). Ciò avverrà principalmente attraverso il progressivo incremento dei singoli giacimenti, l’avvio di nuovi progetti e l’ottimizzazione della produzione. Tutti fattori che contribuiranno per 850 mila barili di olio equivalente al giorno entro il 2020. Eni conta di effettuare nuove scoperte per 2-3 miliardi di barili, con la perforazione di 120 pozzi in più di 20 paesi.
Sono stati e saranno anni duri, le incertezze legate al prezzo del Brent (dal 2011 al 2016 un crollo del 60 per cento), il calo della raffinazione nell’area Ue, come quello legata alla domanda di gas. Ma a palazzo Mattei la tempesta è stata vissuta come un’opportunità per trasformare il principale gruppo energetico del Paese da una conglomerata tanto mastodontica quanto ingessata ad una società integrata più agile, focalizzata sulla produzione di idrocarburi. Fuori da questo recinto, Descalzi, un pò per spirito di affezione, un pò per le pressioni della politica e dei territori, ha tenuto solo la chimica con Versalis, cercando di cogliere l’attimo della trasformazione verso la chimica verde.
Anche Saipem, cruciale per i recenti successi esplorativi in Egitto e Mozambico, è ormai fuori orbita, nella galassia Cassa depositi e prestiti. Ecco che per il futuro, la strategia del “cacciatore di pozzi” Descalzi è chiara, rafforzare l’esplorazione e la produzione, partendo da una serie di punti fermi: il mantenimento di un alto tasso di scoperte rispetto alla produzione, la crescita del tasso di rimpiazzo delle riserve rispetto ai propri competitor (Total, British Petroleum, Chevron, Exxon, Shell e Conoco) e la continua ricerca del calo dei costi esplorativi. Il tutto si potrebbe racchiudere in un solo concetto: restare l’operatore leader per valore delle riserve (rapporto tra flusso di cassa generato dalle scoperte e livello di riserve provate calcolate in miliardi di barili).
Già oggi, infatti, Eni rispetto ai suoi 7 miliardi di riserve provate, genera un flusso di cassa futuro netto di 41 miliardi di dollari, la francese Total con 12 miliardi di riserve provate ne genera solo 33 di miliardi. Un risultato possibile da mantenere solo con l’incremento dell’efficienza e l’ottimizzazione degli investimenti sulla produzione.
Non un lavoro facile. Per adesso l’Eni sembra essersi infilata in una “bolla” dell’upstream che può considerarsi solo che positiva: la scoperta di Zohr, il quadrante africano che sembra consolidarsi, l’avvio (finalmente) della complicata stagione del mega giacimento di Kashagan in Kazakistan, la nuova partita dei blocchi ciprioti acquistati di recente dalla Total. Durerà? Il fattore geopolitico sembra essere la principale chiave di lettura per rispondere a questa domanda. Nel bacino levantino del Mediterraneo ormai la contesa legata a chi avrà il ruolo maggiore si fa sempre più forte. Egitto e Israele stentano a cooperare – come vorrebbero a palazzo Mattei – ma al contrario si contendono iniziative commerciali. Israele ha appena cominciato a vendere il gas estratto dai giacimenti offshore alla Giordania, storico alleato del Cairo.
Il Libano pretende la propria parte nello sfruttamento della zona economica esclusiva che deve condividere col governo di Tel Aviv. In Asia Centrale, le ex repubbliche sovietiche come il Kazakistan potrebbero presto ritornare sotto l’orbita russa, qualora dovessero rappresentare una seria minaccia all’industria estrattiva di Putin.
Per non parlare dell’Africa, dove la Nigeria potrebbe revocare la licenza sul discusso giacimento Opl 245. Anche in Europa si giocherà un pezzo importante del futuro dell’Eni che sta spingendo a Bruxelles per l’introduzione di una vera carbon tax, “un punto in più di produzione di carbone vanifica dagli 8 ai 10 punti di produzione di rinnovabili, quindi mettiamo una carbon tax come hanno fatto in Gran Bretagna. In questo modo tutte le centrali a carbone e tutte le centrali ad olio combustibile spariscono”, ha detto ancora di recente con chiarezza il Ceo di Eni. Insomma, la partita sembra essere appena iniziata.