Fino a qualche tempo fa non sapevo di scrivere dei «post». Che scemo! Immaginavo di fare articoli: normali, discutibili, intelligenti, inutili. Adesso, invece, mi chiedono di comporre qualche «post». Il post, nell’uso odierno, è un commento rapido, nervoso, deve colpire in superficie, la calma del concetto viene abolita, serve un effetto-Sgarbi per offrire al lettore disincantato uno strumento utile, magari con un titolo suggestivo; non so, ad esempio una cavolata del tipo: «Uomo, sei in gabbia!», o giù di lì. Fai un articolo serio, attento, cerchi di non essere banale, anche perché il pensiero non può farsi seppellire dalla scimmia di Zarathustra, solo che non se lo fila nessuno. Mi chiedo: chi ha un minuto di tempo per scendere in quello spazio nevralgico dove la purezza e l’intrinseco ignorano padroni e confini, dove si cerca l’irripetibile, e il caos lascia il posto a un briciolo di ordine esistenziale? No, questa è l’epoca dei post! Sono i pezzi sul sesso orale che vanno alla grande; i pezzi politici profumati dal gesto consueto della volgarità; quelli dove la cronaca insipida e stracolma di pettegolezzi regna sovrana.
Alla gente interessa il dietro le quinte, e noi lo mostriamo: giornalisti e saccenti al servizio del nulla. Siamo tutti coinvolti. Anche questo articolo, pardon questo «post», subisce il meccanismo disorientante della volontà di potenza. La critica non è mai sincera fino in fondo. Chi nuota nel sistema racconta bugie. Comodo sparare sui politici o sull’establishment finanziaria. Ogni settore è marcio. Autorevoli personaggi rimproverano nei loro libri le oscenità del mercato, la furbizia padronale, e soffrono dell’incredibile perdita di vite umane causata dal fiume impetuoso del profitto. Sottoscrivo! Ma loro che fanno per cambiare rotta? I «se» di Gramsci tornano prepotenti di fronte al dilagare del cinismo qualunquista dei giorni nostri: «se avessi fatto anch’io il mio dovere, se avessi cercato di far valere la mia volontà, sarebbe successo ciò che è successo?». Si badi: l’imperativo gramsciano non è rivolto soltanto al bulletto di quartiere che trascorre la sua giornata al bar, ma si rivolge in primo luogo a chi sa e non agisce, a chi sbandiera i principi e si rifugia nella poltrona facile, a chi si rende conto della notte in cui versa un’intera generazione di precari, ma poi non fa nulla per l’auspicato cambiamento. E, ripeto, non parlo solo di politici o manager. L’ipocrisia aristocratica è ovunque, pervade ogni direzione.
Nell’epoca della morte di Dio, il niente acquista il senso e il tutto si trasforma nel «si dice» della chiacchiera. Ognuno è «colui che non è», direbbe Emil Cioran. Invochi il bisogno infaticabile di parlare e non di essere «parlato», di vivere e non di essere «vissuto», magari di giocare e non di essere «giocato» dal vuoto che ci opprime e puntualmente ti guardano come se fossi un imbecille. «Sei fuori dal mondo, mio caro!», tuonano i nuovi professionisti della post-verità.
Penso che la dimensione dell’urlo andrebbe sostituita con quella del silenzio, la propaganda sofista del docente o dell’intellettuale con il linguaggio di chi non rinuncia al sentimento del valore, la presunta bellezza (post-moderna) di una donna siliconata con lo sguardo moderno della ragazza che fu, la post-politica di Minzolini, Scilipoti e Gasparri con quella sobria e dal sapore cosmopolitico rilanciata dal comunista Enrico Berlinguer e dal democristiano Giorgio La Pira, la pseudofilosofia di attori celebrati negli stadi televisivi con quella autentica di chi istituzionalizza il dialogo, non firma autografi e si muove nel «tra» di Buber, l’arte ingannatrice del duemila con quella «moderna» di chi coltiva l’intima espressione, la morale nichilistica dell’«ultimo uomo» con quella classica che non smette di beatificare la differenza interpretativa tra il giusto e l’ingiusto, e naturalmente il giornalismo del «post» con quello serio, responsabile e di lungo respiro. Alla prossima.