TecnopinioniAnche Report era una bolla, e i social l’hanno fatta scoppiare

Ho smesso di seguire diligentemente Report, pochi anni fa, dopo alcuni servizi su una materia che conoscevo molto bene (era la questione multinazionali / fisco / webtax; poi parlarono anche di soci...

Ho smesso di seguire diligentemente Report, pochi anni fa, dopo alcuni servizi su una materia che conoscevo molto bene (era la questione multinazionali / fisco / webtax; poi parlarono anche di social network) perché fecero in questi casi un lavoro estremamente superficiale. Talvolta completamente fuorviante, persino scorretto. Col tempo mi sono reso conto, empiricamente, che le trasmissioni di inchiesta televisiva mi facevano impressione soltanto quando affrontavano un tema che non conoscevo per nulla, mentre ogni volta che toccavano un tema che studio per lavoro mi risultavano intollerabili per quanto erano banali oppure, peggio, deformanti. Così ho pensato: “Quante probabilità esistono che siano scarsi soltanto in quei temi che conosco e bravissimi in tutti gli altri?”.

IL POST DEL PROFESSOR BURIONI – Si è molto discusso del pessimo servizio fatto dalla trasmissione di Rai3 a proposito del vaccino anti Papilloma virus, e ciò che mi ha colpito sono le centinaia di commenti al post del professor Burioni (noto virologo, una persona seria, pacata) che riportano con precisione assoluta la mia stessa esperienza, cioè la discrasia tra quel che pensi di questi servizi televisivi quando parlano di ciò che non conosci e la sensazione che ti danno invece quando parlano di un argomento che conosci molto bene per ragioni professionali. Credevo, onestamente, fosse un mio pensiero, invece a quanto pare l’abbiamo scoperto tutti, lo pensavamo tutti, o comunque in tanti. Andate a vederli: chilometri di commenti di professionisti di aeronautica, ambiente, alimentazione, ingegneria, che all’unisono denunciano “finché non hanno parlato del tema che conosco bene mi piacevano, poi quella volta che hanno parlato del mio ambito è stato un disastro”. Tutti così.

E SE FOSSERO TUTTE BOLLE? – Questo mi fa pensare con orrore a un’ipotesi: e se le trasmissioni d’inchiesta televisiva fossero tutte bolle? Vuoi vedere che i social, coi loro difetti per carità, stanno facendo scoppiare delle bolle invece di crearne soltanto di nuove? Abbiamo creduto a un giornalismo corretto, coraggioso, di sinistra, dalla parte dei deboli, e invece hanno sempre sparato fregnacce? Oppure sono peggiorati col tempo? E per quali fattori? Se fosse così – va studiato, non intendo farmi trascinare – per me, questa intuizione sul rapporto social/informazione cambia tutto. Pensateci: vi è capitato di vedere un servizio di Report o altre trasmissioni di inchiesta giornalistica che riguardava un tema che conoscete a menadito e averlo trovato tremendamente superficiale, finendo col sospettare che allora in tutti gli altri casi eravate semplicemente ignoranti? Attenzione, non parlo di limitazione del formato: è ovvio che in venti minuti un giornalista non potrà mai racchiudere il sapere di uno specialista. No, io parlo di strafalcioni, dubbi montati ad arte, quell’orribile stile fatto di insinuazioni, una costruzione argomentativa basata su una tesi precostituita che sembra essere la colonna vertebrale dell’inchiesta all’italiana e che sarebbe capace di trasformare anche un santo in un serial killer. Puro esercizio narrativo.

PERFORMANCE EMOZIONALE – Questo modo di fare inchiesta mi sembra manchi sempre della smoking gun, a volte persino si vende come inchiesta ma è una collazione di lavori altrui più una singola intervista che contribuisce a nulla (come nel primo famoso episodio ENI-Report), ma soprattutto sia perlopiù una performance emozionale montata sempre nella stessa maniera: introduzione contestuale con musichetta allegra; montaggio dichiarazioni personaggi influenti; scesa in campo del dubbio, la musica cambia, montaggio articoli di giornale che raccontano episodi variamente contestabili; speaking modalità “mhhh, ho una brutta sensazione”; elencazione di varie documentazioni (molto spesso incomplete oppure omissive) che attesterebbero un certo tipo di “interesse”; intervista al soggetto accusato di avere un interesse; insinuazione del dubbio tramite testimonianza di qualcuno che nella metà dei casi non è riconoscibile oppure ha plateali ragioni per vendicarsi; conclusione “aperta” del servizio. In questo modo hai sempre la sensazione che ci sia del marcio, per forza. Ma l’inchiesta è un’altra cosa. L’inchiesta porta documentazione che altri non hanno, non mette assieme figurine di personaggi che hanno “interessi”. Dimostrare che qualcuno guadagna da qualcosa che ci dice di questa cosa? Nulla. È una specie di moralismo calvinista applicato al giornalismo.

In Italia pubblichiamo precocemente, ci interessa la performance e non il diritto del lettore a essere correttamente informato. Quel servizio sul vaccino era al massimo una bozza, magari anche promettente, ma senza nulla di concreto da portare al pubblico. L’unica notizia possibile è dire se un vaccino fa male, in caso contrario un vago richiamo alla trasparenza, peraltro pure lacunoso e scentrato, va catalogato in altro mestiere: revisori dei conti; burocrati di qualche ente di controllo parastatale. Non certo nella gloriosa definizione di inchiesta giornalistica. Un giornalismo sano avrebbe lasciato quel materiale in “cucina”, non l’avrebbe trasmesso. Certo, le redazioni si raccontano che seguiranno la vicenda a puntate, poi però metà delle cose le perdi per strada (tu lettore o le redazione stesse) e resta roba fatta male. Ma tanto che importa? Quasi nessuno ne sa più di loro, giusto? Eh, no, sbagliato. Ora la gente si parla, condivide conoscenze in Rete. E forse la bolla è scoppiata. Sotto il post di un bravo scienziato.

X