Alta Fedeltà“Il cortile di pietra”, Francesco Formaggi: “Come venivano trattati i bambini negli istituti religiosi del dopoguerra?”

Nell’Italia rurale del dopoguerra, Pietro, un bambino di sei anni, non vive una vita semplice: i suoi genitori sono contadini in miseria e la casa in cui vivono cade a pezzi. Un giorno, a portarlo ...

Nell’Italia rurale del dopoguerra, Pietro, un bambino di sei anni, non vive una vita semplice: i suoi genitori sono contadini in miseria e la casa in cui vivono cade a pezzi. Un giorno, a portarlo via da lì, via dai genitori, via da tutto ciò che conosce, si presenta un uomo enorme, con una grossa pancia e la testa completamente pelata, tonda e liscia come il fondo consunto di una pentola di rame: è l’ispettore incaricato di condurlo in collegio. Mentre si allontana su un carro cigolante, Pietro si ripete che tornerà presto a casa, quando suo padre, con una bocca in meno da sfamare, smetterà di essere povero, e quando la mamma guarirà dalla malattia che, spesso, la costringe a letto per giorni interi.

Da lontano il collegio ricorda un cimitero, con l’alto muro di pietra dietro il quale svettano gli alberi. Dentro tutto è sporco, freddo, trascurato, quasi marcescente, e le suore, soprattutto quelle anziane, sono donne dall’animo gelido, indifferenti e severe. Nel refettorio, silenzioso e cupo, viene servito cibo rancido, ma chi prova a lamentarsi o a protestare resta a digiuno. I pavimenti sono neri e appiccicosi sotto le scarpe, le pareti sembrano unte d’olio e c’è sempre un tanfo terribile. Nelle mattine d’inverno il gelo punge sulle ginocchia come aghi di pino e, poiché non ci sono bracieri per riscaldarsi, le mani tremano al punto che non riescono nemmeno a intingere i pennini nell’inchiostro. Le suore non esitano a infliggere punizioni e cinghiate e, all’occorrenza, a rinchiudere i bambini nella torre.

Per sopravvivere agli orrori del collegio, il nostro protagonista stringe amicizia con Mario, un ragazzino sveglio e intelligente. Nonostante sia più grande di un anno, Mario ha il corpo minuto ed è più basso degli altri bambini della sua età, come se non fosse cresciuto abbastanza. Le suore lo chiamano «la peste», per via del suo spirito ribelle che, più di una volta, lo ha portato a tentare la fuga. È sempre stato riacciuffato e picchiato, ma Mario non si è mai arreso, fino al giorno in cui una punizione più dura del solito lo fa cadere malato. Solo allora Pietro capisce che dovrà mettere da parte la paura e scoprire il coraggio se vuole salvare l’amico e ritrovare la libertà.

Con “Il cortile di pietra” Francesco Formaggi, già autore de “Il casale”, ci consegna un romanzo maturo che, attraverso lo sguardo sensibile e curioso di un bambino, parla di soprusi e di resistenze, di segreti inconfessabili e dell’amicizia pura e limpida fra due bambini privati di tutto, ma non della voglia di vivere. Abbiamo chiacchierato con l’autore a proposito del suo ultimo romanzo, pubblicato dalla casa editrice Neri Pozza, dei temi d’attualità (e non) alla base del libro e del ruolo della Chiesa oggi.

  • Com’è nata l’ispirazione alla base della storia raccontata nel suo ultimo libro, “Il cortile di pietra”?

L’ispirazione viene principalmente da una esperienza personale, quella dei giorni che, da bambino molto piccolo, ho trascorso in un collegio di suore. Ci sono rimasto solo per qualche settimana, ma è stata così forte e brutale l’esperienza che mi è rimasta stampata nella mente. Ricordo soprattutto la voglia che avevo di scappare dal quel luogo, insieme a quella di salvare i mie due fratelli che erano rimasti lì dentro. Poi, per quanto riguarda la trama, mi sono lasciato trascinare dei racconti di amici e parenti che hanno vissuto davvero in un collegio di suore, per tutta la loro infanzia. Così ho potuto ricostruire gli ambienti, la vita quotidiana nel collegio, e raccontare la vicenda del ritrovamento di corpi di bambini sepolti in una fossa comune: una storia che, dalla mie parti, fin da quando era bambino, tutti conoscevano, anche se non sono mai emerse prove effettive o documenti certi.

  • Di cosa tratta il romanzo, chi è Pietro?

Il romanzo però tratta principalmente dell’infanzia, della resistenza dei bambini, della fantasia che rimane intatta anche quando si è abusati e maltrattati. Pietro è un bambino pieno di fantasia: spontaneamente intaglia il legno, incide disegni sulle cortecce degli alberi, è naturalmente portato a dare forma alle immagini della sua fantasia. Ma nel momento dell’abbandono si perde, e quando viene portato in collegio è smarrito. Mentre scrivevo mi chiedevo: come reagirebbe un bambino di oggi a una condizione di abbandono del genere? Ebbene, reagirebbe esattamente come Piero: annullando la realtà violenta, in un primo momento, ma poi ritroverebbe una sua identità, e una sua possibilità di salvezza, una possibilità di immaginare un altro mondo, un’altra vita, più umana. Così accade a Pietro: grazie al suo affetto per Mario riesce a reagire, a fuggire, a trovare persone che possano volergli bene.

  • Un elemento che colpisce immediatamente nella sua scrittura, seppure asciutta e mai barocca, è la capacità di dare un’anima ai luoghi, quasi fossero un prolungamento esterno dei sentimenti raccontati.

È nell’ambito di quella che potremmo chiamare la mia ricerca letteraria, la ricerca di una forma attraverso al quale raccontare le storie che, di immagine in immagine, si formano nella mia testa, dall’inizio del processo creativo, ovvero quando mi viene la prima idea che ha una forma molto grezza (mi piacerebbe raccontare questa storia, da questo punto di vista), fino all’ultima stesura. Per quanto mi riguarda passano sempre un paio di anni dal primo all’ultimo momento. E la ricerca va nella direzione dell’espressionismo, si tratta di una modalità espressiva per cui ciò che conta è l’interiorità dei personaggi, e la realtà esterna è vista come una diretta espressione di una interiorità soggettiva, che quindi la trasforma, come nei quadri di Van Gogh o di Munch, per intenderci. Così i luoghi dei romanzi, le descrizioni, sono prolungamenti dei sentimenti e dell’interiorità dei personaggi, loro appendici.

  • L’Italia, nelle sue più brutali miserie del dopoguerra, è uno dei protagonisti del romanzo, non riducendosi a essere mero sfondo. Qual è Italia che ci racconta e come ha fatto, vista la giovane età, a documentarsi per raccontare un tempo ormai dimenticato, così lontano?

L’Italia che racconto viene direttamente dai racconti di mia nonna, contadina, che ha vissuto la guerra, e mi narra di tempi in cui vivere era tutt’altra cosa rispetto a oggi, era duro, si doveva lavorare nei campi tutto il giorno, solo per la sopravvivenza, e la luce si faceva con i lumini a petrolio, e ci si spostava a piedi, o con il carro, chi se lo poteva permettere, e si possedeva solo un solo paio di scarpe, e anche le mutande si rammendavano, insomma… un altro tempo, anche se vicino a noi (parliamo di sessant’anni fa), in un luogo desolato come la campagna della Ciociaria. Ad esempio, mia nonna amava andare a scuola, amava studiare, ma la scuola distava due ore di cammino dalla sua casa di campagna, e molte volte non poteva andare perché c’era da lavorare nei campi, oppure pioveva così forte che le strade diventavano paludi impraticabili. Eppure è riuscita a fare fino alla terza elementare. Questa Italia qui me la porto dietro attraverso le esperienze dei miei familiari. Per questo non è stato necessario fare ricerche, e per lo stesso motivo nel mio romanzo non troverai mai un realismo chiaro, con ambienti reali, date e luoghi precisi, ma piuttosto un’atmosfera. Ciò che mi interessa come romanziere non è ricreare una realtà geografica o temporale particolare, ma esperienze umane che parlino dell’essere umano quanto più universalmente possibile.

  • Pensiamo anche al recente ritrovamento in Irlanda di numerosi resti di neonati e bambini piccoli nei sotterranei di un ex istituto religioso per madri nubili a Tuam, nella contea di Galway. Cosa c’è di vero alla base della sua storia?

Alla base della mia storia ci sono storie, leggende relative alla mia terra, la Ciociaria, dove la presenza di collegi di suore e conventi è massiccia, e dove tutt’oggi la religione cattolica crea una cappa culturale opprimente. La scintilla per scrivere questo romanzo è venuta dal racconto di un amico che aveva trascorso la sua infanzia in collegio e mi diceva di essersi accorto, molti anni dopo, da adulto, che le suore, nel suo stesso collegio, dopo aver abortito, gettavano i feti in pasto ai maiali, oppure seppellivano in fosse comuni i corpi dei neonati morti. Verità? Leggenda? Difficile da verificare. Nell’ambito del romanzo non è importante la verifica dei fatti, perché ciò che conta di più è la suggestione delle esperienze umane. Per questo motivo, quando ho saputo che in Irlanda invece si era mosso il ministero per indagare fatti analoghi, e l’inchiesta ha portato alla scoperta di resti umani sepolti nei sotterranei, sono rimasto molto stupito. Ciò che conta naturalmente non è la scoperta dei cadaveri o degli scheletri, ma ciò che essa suggerisce, ovvero il modo disumano in cui questi bambini era trattati, in vita, in quegli istituti. E fa nascere la domanda: come venivano trattati i bambini negli istituti religiosi del dopoguerra? Ma più importante: come vengono trattati oggi i bambini in quegli stessi luoghi?

  • Perché, secondo lei, la Chiesa e la comunità cattolica sono così restie ad avviare indagini in tal senso e ad assumere posizioni pubbliche definitive? Il mondo dell’arte e della comunicazione cosa possono fare per spingere ad una presa di coscienza?

La Chiesa è restia perché la negazione e il nascondimento dei misfatti rientrano naturalmente nel cerchio del loro modo di essere. Non avrebbero alcun interesse a fare emergere una realtà del genere, qualora si scoprisse effettiva, quindi con fatti documentati. Ma il problema non è il loro, il problema è delle istituzioni non religiose, dello Stato. È lo stato che dovrebbe iniziare una inchiesta seria sulle condizioni dell’infanzia nel nostro paese, sia del presente che del passato. Cosa accadeva all’interno dei collegi gestiti da suore nell’Italia del dopoguerra? Cosa è cambiato nel tempo? Da quando è uscito il romanzo, ricevo decide di messaggi privati nei quali a scrivermi sono principalmente donne che mi dicono: anche io da bambina ho vissuto esperienze simili e terribili dalle suore ecc. Insomma, le esperienze ci sono, le testimonianze anche, manca solo la volontà, culturale, di andare contro l’omertà degli ambienti cattolici. E poi, a mio avviso, manca anche la volontà di cambiare un pensiero generale, diffuso, un senso comune, che purtroppo vede il bambino come un animaletto da controllare, un essere umano non ancora compiuto che gli adulti possano plasmare a proprio piacimento. I bambini invece sono esseri umani compiuti, con una loro identità formata, un loro pensiero, loro esigenze. Per questo forse sarebbe molto utile tornare a leggersi la convenzione sui diritti dell’infanzia.

  • Pensando agli orrori che deve affrontare il piccolo Pietro, cos’è cambiato oggi? Quali sono le paure che abitano i cuori dei bambini dei nostri giorni, cos’è cambiato?

Credo che sia cambiato molto, soprattutto in termini di realtà fisica: non esistono più maltrattamenti fisici, non si picchiano più i bambini perché fanno i capricci, i bambini mancini vengono lasciati in pace, e non costretti a scrivere con la sinistra legata dietro la schiena, per fortuna. A livello teorico sono stati fatti dei passi avanti enormi. Ma credo che ancora oggi, in Italia soprattutto, l’idea comune, quella culturalmente condivisa, sia una idea sbagliata sul bambino e sull’infanzia, come dicevo prima: il bambino è ancora visto come un essere umano incompiuto, o peggio ancora come un animaletto. E questo non va bene. Perché se la pensi così, allora neghi la realtà dei bambini, e non puoi fare con loro un rapporto reale.

  • “Se chiudi gli occhi davanti a qualcosa di spaventoso, finirai per avere sempre paura” è la citazione dello scrittore David Peace che ha voluto regalarci prima della sua storia e che si respira in ogni pagina del romanzo. È un messaggio molto importante e che può essere fatto proprio non solo dai più piccoli, ma anche dai più grandi, soprattutto se pensiamo ai recenti fatti di cronaca legati al dramma del bullismo e alla diseducazione all’accoglienza che la politica attuale ci sta insegnando.

Non chiudere gli occhi davanti a qualcosa di spaventoso significa anche non chiudere gli occhi di fronte alla realtà, che spesso può essere spaventosa. In questi giorni siamo tutti scossi dalla notizia di cronaca su Alatri. Alatri è una bellissima cittadina della Ciociaria, ci vado spessissimo, anche solo a passeggiare, perché il borgo è incantevole. Allora cosa è accaduto? Perché si è arrivati al punto di ammazzare un ragazzo di venti anni? Quale è l’origine di quel gesto? Da quale disagio o malattia origina? Come mai non ci si è accorti che stava fermentando una violenza tale da sfociare poi in omicidio collettivo? Chi ha chiuso gli occhi per non vedere la realtà? Chi continua a tenerli chiusi, adesso, e non vede che si sta alzando, a seguito dell’omicidio, un’onda di violenza terribile tra i giovani di quei paesi, fatta di vendette e paura e ciecità, che sta lasciando una ferita che sarà difficile rimarginare?