Alta Fedeltà“Ogni città ha le sue nuvole” di Tommaso Avati, benvenuta adolescenza!

È tutto un altro cielo quello sotto cui si ritrova Alessandro Campolungo quando, nei primi anni Ottanta, con la madre e la sorella si trasferisce da Bologna a Roma. È tutto un altro mondo e integra...

È tutto un altro cielo quello sotto cui si ritrova Alessandro Campolungo quando, nei primi anni Ottanta, con la madre e la sorella si trasferisce da Bologna a Roma. È tutto un altro mondo e integrarsi, per un quattordicenne con la media dell’otto e il mito di “Quark” e Piero Angela, non è facile. In “Ogni città ha le sue nuvole” (SEM), Tommaso Avati ci accompagna per mano in viaggio di formazione luminoso come i cieli di Roma, in cui tratteggia la spensieratezza e le contraddizioni dell’adolescenza, e fa rivivere, attraverso odori, musiche e film, lo splendore di quei primi anni Ottanta.

E’ raro riscontrare una tale capacità di scrittura immersiva: Avati, dal prologo nel quale ci fa fare subito la conoscenza di Alessandro, porta noi lettori dentro una storia di crescita e acquisizione di consapevolezza di sé e degli altri. Permettendoci di gustarne i profumi, scorgere i colori delle nuvole che non si guardano più (i cieli di tutti sono ormai gli schermi dello smartphone), sorridere in maniera agrodolce della vita di tutti giorni, apprezzare gli aspetti più pop dell’adolescenza di ognuno di noi, dalle tristi camerette che hanno tormentato i nostri pomeriggi di studio alla squadra di calcio del cuore.

Il calcio, per l’appunto, uno degli altri grandi protagonisti del racconto di Avati. Una passione che, per gli abitanti di Roma, è quasi atavica, una questione di sangue, vitale. Una passione che, tra mancanze di comunicazione, incomprensioni e la consapevolezza di voler vivere la propria vita, abbandonando finalmente la panchina e gettandosi nella mischia, farà da colonna sonora a tutto il racconto, alternandosi alle note di “Every little thing she does is magic” o “Could you be loved” e ad una puntata di “Quark”.

Perché per Alessandro il calcio non è solo uno sport, ma la metafora del rapporto con il padre e della sua visione della vita, odi (“Io il calcio lo odiavo visceralmente, e odiavo quelli che ci giocavano e quelli che ne parlavano in continuazione”) et amo (“Però, quelle poche volte che mi era capitato di giocare, nonostante tutto mi ero divertito. Avevo sentito un fremito”). Senza dimenticare che proprio lo stesso padre di Alessandro ha giocato nella Roma e ha rappresentato, per i tifosi, il bello del calcio. Quel calcio fatto di condivisione, cuore e senso di appartenenza che tanto ha amato e descritto anche Nick Hornby, fuori dalle logiche attuali di marketing o di scrontro ideologico tra le persone.

Alessandro è uno come noi, un ragazzo normale che dovrà crescere in una famiglia non propriamente funzionale, incasinata, dove parlare non vuol dire sempre ascoltare, nella quale spesso capiterà che le aspettative rischino di schiacciare l’identità ma che, anche se tra tante insicurezze ed un inevitabile inciampare, c’è e ci permetterà di prendere coraggio, seppur sbagliando. E il nostro Alessandro imparerà proprio questo, che nella vita ciò che conta è prendere a cuore qualcosa, qualcuno, esporsi, che si tratti di una partita contro “quel laziale” o di iniziare a parlare, sul serio, con suo padre. Uscendo finalmente dalla sua ombra, iniziando a respirare a pieni polmoni e a godersi finalmente il proprio viaggio. Errori compresi.

Benvenuta adolescenza!