Matthew Shepard, quando venne ucciso, non aveva ancora compiuto ventidue anni. Si allontanò da un locale, dopo aver chiesto un passaggio a due persone incontrate in un bar. Si erano mostrati, i due ragazzi, gentili e affabili con lui. Erano i suoi aggressori. Lo portarono in aperta campagna per derubarlo e torturarlo, la notte tra il 7 e l’8 ottobre del 1998 a Laramie, nel Wyoming. Venne ritrovato l’indomani in fin di vita, picchiato selvaggiamente e seviziato. L’uomo che ne scoprì il corpo pensò, all’inizio, che si trattasse di uno spaventapasseri. Poi vide i solchi delle lacrime che rigavano il volto ricoperto di sangue. Morì alcuni giorni dopo. Il padre, al processo contro Aaron James McKinney e Russell Arthur Henderson, i suoi aguzzini, ottenne che la pena capitale venisse commutata in carcere a vita. Perché alla morte si rispondesse con la vita. Perché il perdono fosse più forte di quella follia.
Matteo di anni, invece, ne aveva diciassette. Viveva a Torino, con la madre. A scuola gli dicevano che era “come Jonathan del Grande Fratello” e lo prendevano in giro. Perché sembrava omosessuale. Perché i suoi modi, forse, erano più delicati. Perché era più sensibile. E quella sensibilità è divenuta la breccia dalla quale far passare battute, dileggi, violenza verbale. Cattiveria. Matteo non ce l’ha fatta e a un certo punto ha deciso di andarsene. Con un salto nel vuoto. Non sappiamo se fosse davvero gay. Sappiamo due cose: per i suoi compagni essere “diversi” era un crimine orrendo, perché nessuno aveva detto loro il contrario. E che l’omo-transfobia può far vittime anche al di fuori delle persone gay, lesbiche, bisessuali, intersessuali e trans. Trasformando le parole di adolescenti in strumenti di morte. E uccidendo persone innocenti.
Ho ricordato questi due casi – ma purtroppo, molti altri ne sono accaduti – perché oggi in Italia comincia la stagione dei pride. Il pride è una manifestazione politica. Si ricordano i moti di Stonewall del 1969, quando la comunità Lgbt americana decise di ribellarsi alle angherie della polizia, allo Stonewall Inn, un bar di New York. All’ennesima aggressione da parte delle forze dell’ordine, la notte tra il 27 e il 28 giugno, le trans lanciarono i loro tacchi a spillo (secondo la leggenda) o più verosimilmente una bottiglia in testa ad uno di loro. E fu la rivoluzione: da allora moltissimi paesi hanno leggi sui matrimoni tra persone dello stesso sesso, si possono adottare i bambini, si può essere genitori, ci sono leggi che puniscono i discorsi d’odio e le violenze, si riconosce l’identità delle persone transgender. Ma c’è ancora molto da fare. Per questo si va in piazza e si marcia.
Si marcia perché in alcuni paesi non è ancora completo il corredo di diritti della comunità arcobaleno e si lotta perché si arrivi al loro riconoscimento completo. Si va in strada per dire no ai soprusi e alla violenza contro le persone Lgbt in altri paesi meno fortunati, come in Uganda, in Russia e in Cecenia, dove i diritti umani vengono quotidianamente calpestati. Si va in piazza per dire no alla pena di morte in quei paesi che la prevedono per chi è considerato “fuori norma” rispetto al paradigma eteronormativo. Si va mano nella mano, per dire che non abbiamo più paura. Si va con gli eccessi, coi colori, con la musica, coi nostri corpi anche nudi, perché non ci scandalizza la gioia. Perché non vogliamo più delegare a nessuno la giustezza delle nostre esistenze e lo facciamo con il linguaggio che più ci è proprio. E se questo offende qualcuno, pensate a chi è stato ucciso, ferito o umiliato e si cerchi di capire cos’è più urgente, al cospetto della propria coscienza.
Oggi, perciò, comincia la stagione dei pride – e si apre con il Toscana Pride, ad Arezzo – e allora buona marcia dell’orgoglio a tutte e a tutti. Per quel che mi riguarda il mio pensiero va a chi non ce l’ha fatta. Perché la società o la vita sono state cattive e nessuno ha preso per mano chi era più fragile. Oggi io marcio perché domani, quella mano, non sia negata a nessuno. E perché quella fragilità sia niente di più di un accento gentile agli angoli di un sorriso. Buon pride.