Quando il 26 giugno del 1997 uscì nelle librerie il primo libro di quella che sarebbe diventata una delle saghe più fortunate nella storia dell’editoria, Harry Potter e la pietra filosofale, Francesco Totti – a vent’anni – giocava già in Serie A da qualche stagione e con la maglia numero 17 della Roma alla voce gol segnati era già in doppia cifra.
Quei ragazzini che costringevano i genitori a fare la fila per comprare il libro della Rowling o per andare al cinema a vedere il maghetto con la faccia di Daniel Radcliffe nel frattempo sono diventati adulti e molti di loro erano davanti alla tv, o allo stadio, in piedi e commossi ad applaudire Francesco Totti per l’ultima volta con la maglia della Roma, a quasi 41 anni, 24 anni dopo il suo esordio.
Francesco Totti ha coronato il sogno di tutti i bambini che con addosso la maglia del proprio campione del cuore con il pallone sotto al braccio scendono nel cortile del proprio condominio sognando di segnare in un grande stadio.
Gli eroi vanno e vengono, ma le leggende sono per sempre disse Kobe Bryant, uno dei giocatori di basket più forti di sempre, in una delle sue ultime interviste poco prima del ritiro. Totti è già, alla pari di Giulio Cesare, il romano più globale di sempre e la sua città, Roma, lo ha amato come non era mai accaduto con nessun altro. Lui ha ripagato non andandosene mai, neppure quando le squadre più titolare al mondo lo avrebbero ricoperto d’oro per vestirlo con i propri colori. Totti ha sempre preferito il Tevere, al Manzanarre e ai Navigli, il ponentino romano alla pioggia di Manchester, Ostia alla Barceloneta.
619 presenze in serie A, 167 partite tra Coppa Italia, Champion’s League, Coppa Uefa-Europa League e Supercoppa Italiana. 58 gettoni in azzurro. Tante le magie, con il destro, con il sinistro, al volo, di precisione, in acrobazia, di potenza, di testa, su punizione, su calcio di rigore.
Ma l’ultima magia di Totti è stata ieri, quando ci hai riportato tutti bambini ricordandoci il reale senso del gioco del calcio. Ha riavvolto il nastro delle nostre menti e quello dei nostri cuori vedendolo commuoversi, fino a piangere, sotto la Sud, lo spicchio del tifo romanista che lo ha amato come nessuno mai, con addosso solamente la sua maglia, la numero 10. Quasi nudo di fronte al mondo che lo applaudiva per l’ultima volta.
Se nel 1983 Antonello Venditti scrisse Grazie Roma per celebrare la vittoria dello scudetto ieri tutti noi – anche chi non ha mai fatto il tifo per la Roma – avrebbe voluto cantare solo Grazie Totti perché con lui che con la voce strozzata dall’emozione diceva “è finita davvero” voltavamo pagina anche noi che il capitano della Roma lo cercavano nelle figurine Panini, che commentavamo i suoi gol durante l’intervallo a scuola, che abbiamo esultato per il cucchiaio a Van der Sar nel 2000 e siamo ancora pazzi di gioia se ripensiamo alla Coppa del Mondo 2006.
Francesco Totti è stata l’ultima vera bandiera di un calcio romantico che non c’è più e che ci manca già tremendamente. Con lui saluta l’ultimo alfiere di quella generazione di fenomeni, la leva calcistica del 1976, una delle migliori di sempre.
Penso a Totti e penso a Gianluigi Donnarumma, detto Gigio, classe 1999 portiere del Milan squadra per la quale fa il tifo (e faccio il tifo). È lui il primo fuoriclase millennials erede naturale di Buffon in maglia azzurra e dei Baresi e dei Maldini in rossonero a poter fare (se lo vorrà) quello che ha fatto il numero dieci della Roma. Lo immagino guardare Totti e pensare che il calcio infondo è qualcosa che va oltre gli ingaggi faraonici e le aste al rialzo alle quali il suo procuratore – Mino Raiola – ci ha abituato e grazie alle quali si è arricchito.
Penso alla nuova generazione di calciatori: ai Balotelli e ai Pogba, icone per i giovanissimi che ne imitano look e stravaganze già dalla scuola calcio. Quanto sono diversi dai Del Piero, Zanetti, Terry, Maldini e Francesco Totti appunto.
Cosa farà adesso Totti non lo sappiamo, ma una cosa è certa: Totti dovrebbe essere spiegato nelle scuole calcio. Non per la tecnica (per quei livelli ci devi nascere) ma per quello che è stato, nel bene e nel male, per i no che ha saputo dire, per la scelta di assaporare mai il gusto che si prova ad alzare al cielo una Champions League o un Pallone d’Oro (che avrebbe potuto vincere). Per l’amore, di una città, di un popolo antico e orgoglioso, che ieri è esploso davanti agli occhi di chi – come me – non aveva mai capito cosa fosse davvero Francesco Totti, al di là del calciatore, al di là del capitano di una squadra di calcio, per i romani e i romanisti.