Classe 1976, sette lungometraggi all’attivo, il cileno Pablo Larraìn ha già passato da tempo la prova della maturità. Il suo è un percorso che rincorre un’idea di cinema rischioso, inclemente verso lo spettatore, sin da quel Tony Manero (2007), in cui la vita sotto Pinochet passava attraverso il prisma della solitudine, l’alienazione e la follia di Raul Peralta, il personaggio interpretato dal suo attore feticcio Alfredo Castro: dove la dimensione politica, ad uno sguardo superficiale, sembra essere in secondo piano, marginale. Negli ultimi anni è arrivato anche il successo di pubblico con Neruda e con l’approdo “hollywoodiano” di Jackie (entrambi del 2016); senza abbandonare la sua visione decostruttiva e borgesiana del cinema politico e del biopic. Ora, a 41 anni, è in arrivo un nuovo progetto su suolo americano: Larraìn sarà il regista di The True American (inizialmente la firma doveva essere quella di Kathryn Bigelow, che rimane tra i produttori esecutivi), lungometraggio con Tom Hardy protagonista di una vicenda nell’America post-9/11.
Ripensare il cinema militante: biopolitica sullo schermo
Larraìn non ha quasi mai fatto altro che parlare del Cile di Pinochet e di personaggi politici; ciononostante non ha mai fatto un film politico, quantomeno nel senso comunemente inteso. Il suo sembra invece un lungo percorso di decostruzione e frammentazione della semantica del genere, in un approdo ideale di ripensamento dall’interno del concetto di biopic, come in Neruda e Jackie. Una carriera che assume i tratti di una via di fuga da una certa estetica militante, che usa i personaggi come mezzo per veicolare un messaggio, una Verità, ponendosi in una posizione gerarchica rispetto allo spettatore. Limite evidente, a volte, in nomi blasonati come Ken Loach (I, Daniel Blake ne è un esempio). Questo tipo di personaggi conservano la loro staticità anche nelle eventuali evoluzioni all’interno del film, perché quelle stesse evoluzioni sono programmate, servono da “esempio”, denuncia o per divulgare. È un cinema soffocato, che mira ad essere ideologia, condannandosi ad una sorta di giornalismo mancato. Vale a dire un tradimento dell’essenza dell’immagine cinematografica, la quale rifugge l’immediatezza e richiede un orizzonte di senso che non si esaurisce mai nella mera presenzialità didascalica della scena rappresentata. I protagonisti di Larraìn sono avvolti, invece, da un senso di incompletezza, tanto esistenziale che di scrittura. Sono i prodotti malati di una società violenta, rigurgiti di un sistema politico de-umanizzante, schiacciati nelle pieghe della storia. Ma a prevalere è sempre la loro folle e alienata individualità. Come Raul Peralta, che sogna di essere il miglior sosia di Tony Manero e vincere ad un programma televisivo in cui vengono scelti i migliori imitatori del personaggio interpretato da John Travolta ne La febbre del sabato sera. Lo sguardo di Larraìn si fa ironico e spietato nell’osservare una realtà di squallore e miseria umana. Raul è disposto a tutto per realizzare il suo obiettivo; per lui Tony Manero diventa un’ossessione che lo anestetizza dalla vita circostante. Il suo proposito, come in un American Psycho proletario, è intervallato da insensati e violenti raptus, eseguiti come routine. Sullo sfondo, le forze dell’ordine di Pinochet reprimono ogni forma di dissenso con la violenza; ed è proprio in un sistema sociale in cui l’individuo scompare, che un uomo frustrato non può che ripudiare la sua immagine cercando miti d’oltreoceano. I personaggi di Larraìn cercano di negare qualsiasi dimensione politica, sia in termini di coscienza (di classe?) che di contesto, inconsapevoli di essere un prodotto proprio di tale dimensione. Quello di Larraìn potrebbe allora essere considerato un esempio di cinema biopolitico, dove il potere e la sua azione non vengono rappresentati verticalmente, ma come una forza che circola e annienta e gli individui, fin nelle pieghe del loro quotidiano. È il caso ancora di Mario Cornejo (sempre Alfredo Castro), protagonista del successivo Post-mortem (2010). Una sorta di poetica dell’inquietudine lega questo personaggio, impiegato presso un obitorio in Cile nel contesto del colpo di stato in cui morì Salvator Allende, con quello di Tony Manero. Cornejo è un impolitico, che si muove in un grigio quotidiano immerso nella sua solitudine. Una vita che viene ridestata solo dall’amore verso una ballerina politicamente impegnata. Ma, tutt’intorno, monta l’orrore del 1973 cileno. L’obitorio comincia a riempirsi di cadaveri, tra sequenze surreali di un corridoio occupato interamente da corpi ammassati e nevrosi. Nel mezzo, un’autopsia che segna quella dell’intero paese: sul tavolo operatorio arriva proprio la salma Allende. In tutto questo Cornejo si muove come assente tra le cose, mosso solamente dall’amore impossibile verso Nancy, fino ad un finale che rappresenta la costante implosione dei personaggi inquieti di Larraìn; irrazionali nel richiudersi in una sfera privata che è stata però già da sempre colonizzata e infettata dalla dimensione politica che cercano di rifiutare.
Conflitto, finzione, labirinto
“E Dio vide che la luce era cosa buona e separò la luce dalle tenebre”. Così si apre Il Club (2015), quarto lungometraggio di Pablo Larraìn, con la Genesi di quella storia della salvezza che è la Bibbia. Ma il suo prologo in cielo è solo l’annuncio di un disastro, l’annuncio di una creazione incompleta, di un handicap divino, l’incapacità di separare bene e male, di separare qualcosa che nell’uomo è inscindibile. Una commistione endemica che non si risolve mai in una sintesi. Un’antropologia del conflitto. Al comparire delle prime immagini, quasi a voler smentire il frame precedente, Il Club si inabissa, si spegne, in uno spettro cromatico dai toni grigi. In un paesino dimenticato sulla costa cilena, una casa famiglia ospita un microcosmo al riparo dal mondo. Buio nel buio: un gruppo di preti scomunicati dalla Chiesa per gravi colpe: pedofilia, traffico di bambini, copertura di crimini. La casa dovrebbe rappresentare quell’interiorità in cui espiare i propri peccati e riflettere, ma si rivela una claustrofobica finzione. Una sorta di salvacondotto per insabbiare lo scandalo e sottrarli alla giustizia laica. Ma anche il luogo in cui santificare la repressione del desidero osceno, in un discorso che tocca le considerazioni del secondo volume di Nymphomaniac di Lars Von Trier. Mentre lo spazio chiuso che carica al limite dell’esplosione la contraddizione di tipi umani moralmente negativi assomiglia all’hotel Zafer del Todo Modo di Elio Petri; non a caso un autore dichiaratamente militante che, soprattutto negli ultimi anni di carriera, a cominciare da un film come La proprietà non è più un furto, sembrava voler mettere in questione un’idea di realismo cinematografico che andava esaurendo forza espressiva.
C’è poi un elemento che spesso nei suoi film si interseca con la dimensione politica: il tema della finzione. Si potrebbe quasi dire che esso – in una prossimità semantica con l’idea contemporanea dello storytelling – è l’elemento politico fondamentale della sua idea di lotta. La contraddizione irrisolvibile delle storie di Larraìn è conflitto da cui si origina la violenza del mondo circostante. Se intendiamo la politica come “gestione del caos”, ordinamento della violenza, allora l’(auto)narrazione, il potere che si racconta, è il mezzo ideale. In questo senso il politico in Larraìn è sempre mito-poiesi. Basti pensare a un film come Jackie, dove al centro non c’è tanto Jacqueline Kennedy come individuo, ma la sua intenzione di creare un mito da regalare al proprio popolo, Jfk, al di là delle ombre del personaggio, al di là del proprio dolore. Il mito è la cosa più importante. L’immaginario pop diventa la chiave della politica contemporanea. Un discorso già evidente in No – I giorni dell’arcobaleno. La campagna per il referendum contro la conferma di Pinochet a guida del paese, grazie alle idee del pubblicitario interpretato da Gael Garcia Bernal, non viene condotta attraverso la retorica classica delle forze di opposizioni: niente poesia dell’impegno, pornografia del dolore, niente desaparecidos, né esibizione delle violenze e delle atrocità del regime. Solo il desiderio banale e superficiale di una felicità frivola. Il giovane pubblicitario costruisce una campagna totalmente anti-politica, un’imitazione dell’immaginario dei videoclip americano: spot della Coca Cola, coreografie e sorrisi. Un trionfo del kitsch e del pop patinato usato come arma politica. Il realismo – manifesto di quanto detto finora – viene totalmente rifuggito: come nella scena in cui bisogna girare una scena con una famiglia cilena allegra alle prese con un pic-nic: il giovane pubblicitario è impenetrabile alle critiche dei colleghi, che gli fanno notare come baguette e attori di alta statura (in Cile) sono elementi alieni poco credibili. La finzione come struttura della vita in “No” diventa possibilità d’espressione della giustizia: il meccanismo finzionale viene piegato alle proprie logiche.
Se il postmoderno ha a che fare con la dissoluzione della verità nei labirinti delle piste interpretative, allora quello di Larraìn merita in pieno tale etichetta. In particolar modo se parliamo di un film come Neruda, summa e manifesto del cinema del regista cileno e di quella decostruzione del biopic e del cinema politico a cui si è fatto riferimento fino ad ora. Conflitto, finzione, labirinto: Larraìn si muove pienamente tra queste coordinate. Il Pablo Neruda del film ha mille volti: poeta, oratore, militante comunista, viveur, fuggiasco dopo la salita al potere di Gonzalo Videla nel 1948. Larraìn procede per depistaggi, narrazioni che si intersecano ad altre narrazioni; labirinti in cui la realtà si perde e può essere solo (ri)costruita. Neruda viene mostrato in tutta la sua contraddizione, nei flirt con la borghesia e l’aristocrazia, nel suo egocentrismo: ancora una volta è la narrazione, questa volta autoriferita, la creazione del mito che la voce oratoria del Neruda esiliato regala al Cile, ad essere l’elemento politico fondamentale.
La storia procede attraverso il racconto della voce fuori campo dell’ispettore di polizia Oscar Peluchonneau. Personaggio mai esistito, dubitante lui stesso della propria realtà. Una sorta di doppio lanciato verso l’infinita caccia dell’avversario. Una finzione che esiste in funzione dell’esistenza di Neruda (e viceversa?). Un duello che ricorda I teologi di Borges, tanto da far sospettare che durante il film assistiamo ad una storia di spettri (di revenant, nel senso dell’hauntologie di Jacques Derrida), di un unico Io che rincorre i suoi pezzi mentre, letteralmente, “scrive” la propria vita, mette in mostra la propria auto-bio-grafia. Neruda è un film in cui il senso della figura di Pablo Neruda, che la memorialistica ufficiale, la letteratura, la filologia, la storia hanno voluto cristallizzare, viene invece differito. Ciò che è e che significa “Pablo Neruda” è inafferrabile, letteralmente. Un’eterna fuga del corpo e del senso. Ed è a questo che assomiglia il cinema di Larraìn: un labirinto che mira a far smarrire, a perdere le coordinate dei generi e a far così rifrangere la Verità, renderla una promessa infinita, senza permettere mai di totalizzarla.