MillennialsSiamo disagiati sì, ma non solo per colpa nostra

Per i Millennials il libro di Raffaele Alberto Ventura, Teoria della classe disagiata, è una lettura oggi obbligata, almeno a vedere il susseguirsi di recensioni e interviste. Parlando soprattutto ...

Per i Millennials il libro di Raffaele Alberto Ventura, Teoria della classe disagiata, è una lettura oggi obbligata, almeno a vedere il susseguirsi di recensioni e interviste. Parlando soprattutto di noi, l’ho letto per capire se può essere un valido contributo al dibattito che stiamo cercando di portare avanti in questo blog. Nel parlarne, sarò sincero, andrò oltre il testo, per spiegare che cosa avrebbe dovuto dire – e non ha detto.

L’equivoco del testo viene comunicato fin dalle pagine iniziali, dove l’autore si schianta con la mancanza di scelta tra “chi ci fa la morale oppure chi ci invita a non smettere di sognare” e sostiene che abbiano entrambi torto e ragione. In realtà l’incapacità di trovare una via d’uscita dipende da alcune carenze nel percorso argomentativo; sarà oggetto della mia non-recensione lanciare una soluzione al dilemma, che anticipo brutalmente: liberiamoci di chi ci fa la morale, e sta occupando abusivamente gli spazi che ci spettano, per salvare almeno i sogni di qualcuno.

Nonostante Ventura sostenga che il suo testo non si limiti a descrivere la classe creativa ipertrofica, per lo più precaria, è difficile pensare che la classe disagiata di cui parla possa andare oltre: non ne fanno parte il “lavoratore salariato che vede il proprio settore minacciato”, mancando di velleità intellettuali, né “tutti quelli che, facendo violenza alle proprie inclinazioni, riescono a garantirsi un relativo benessere materiale finendo magari nelle spire dello stress e della depressione” perché costoro, semplicemente, vivono un percorso normale di ingresso nell’età adulta.

Nemmeno penso che l’aspirazione di diventare artisti per molti sia un bene posizionale, uno status da esibire, piuttosto è il frutto di una serie di fattori: l’individualismo, con la sua celebrazione incessante dell’autorealizzazione, e la distanza ormai incolmabile tra chi produce e chi fruisce l’arte, che mantiene migliaia di giovani di belle speranze nell’ignoranza di essere solo dei dilettanti – per onestà, Ventura accenna a questo fenomeno richiamandosi a un libro di Balzac; i riferimenti storici sono tra gli aspetti più pregevoli del libro perché consentono di ridimensionare i problemi che affrontiamo, essendo, in fondo, comuni nelle civiltà decadenti.

Se è vero che non tutti possiamo diventare scrittori, registi, artisti concettuali, è anche vero che c’è un’altra classe, baciata dalla storia, che ha saturato i posti e li tiene ben stretti, anche ora che i consumi sono calati. Nel mondo del giornalismo il fenomeno è estremamente visibile, quasi esemplare: il consumo di quotidiani è sensibilmente diminuito, una parte di lavoratori è stata assunta a suo tempo con i contratti faraonici dell’ordine dei giornalisti, e una parte è totalmente precaria e pagata a collaborazioni. La ragione economica è semplice, e non dipende dal neoliberismo, anzi, dipende dalla rigidità di un’eredità socialista: non si possono toccare i vecchi contratti, e chi ne gode non ha motivo di essere più produttivo, mentre si può chiedere a un giovane di “sacrificarsi”, perché tanto vive in casa dei genitori, oppure è ricco di famiglia e pure “autonomo”. Nelle professioni intellettuali più ricercate si assiste ovunque alla medesima dinamica: l’editoria è in crisi e paga stipendi da fame a giovani curatori e traduttori, nella fotografia ci sono sempre gli stessi nomi e se sei giovane puoi fare al massimo l’assistente, solo il cinema pare mostrare segni di ripresa (dannati capitali privati!). I posti migliori sono occupati perché, nell’ignoranza e impreparazione del pubblico, si sceglie l’usato garantito; perché prendersi responsabilità, in un Paese dove tutti aspettano il momento in cui criticare, non è affatto facile. Aggiungo poi che noi millennials siamo pochi, con scarsa capacità di spendere e imporre i nostri gusti, bravi a non fidarci l’uno dell’altro, a invidiare chi ha successo, perché, in questo concordo con Ventura, siamo molto rancorosi – pure, o soprattutto, tra di noi.

Lo stesso autore sa bene che accusare il neoliberismo non è la soluzione, ma perché, ahimè, va oltre, ritenendo che sia il capitalismo il problema. Purtroppo, nel cedere alla sirene anticapitaliste, Ventura non arriva mai a colpire a fondo i veri nemici dei giovani che non trovano spazio: avrebbe dovuto ammettere che i prodotti culturali italiani fanno cagare. Sono gestiti da persone totalmente autoreferenziali, spesso prive di qualunque apertura sul mondo (ah, non parlano inglese, no) e quindi fuori dalla storia. Nessuno si domanda mai se l’italiano medio sia solo una capra oppure se gli venga offerta spazzatura; ebbene, io che capra non mi ritengo, e leggo in inglese e francese, mi accorgo che là fuori si fa cultura meglio. I saggi anglosassoni sono più leggeri, ironici e, al contempo, colgono veramente le innovazioni e le sanno spiegare; quando in Italia occorre scrivere un saggio si chiama un trombone qualunque che sbrodola gli stessi concetti che dice da anni, con una forma lenta, affettata, che nasconde argomentazioni deficitarie. Che dire dei francesi? Sono specializzati nei pamphlet politicamente scorretti, talvolta un po’ caricaturali, ma almeno osano dire qualcosa che qui da noi è vietato dalla censura egemonica di sinistra: l’immigrazione è un inganno per l’Africa, l’islam radicale minaccia le nostre periferie. Houellebecq scrive Sottomissione perché vive una situazione che sta andando in quella direzione, è vero, ma al contempo sta intuendo problemi ampi, che riguardano tutto l’Occidente – trovatemi un autore italiano che abbia la stessa capacità profetica.

In sintesi, Ventura, più che dipingere un’intera classe disagiata, scrive (a sua insaputa) di un fenomeno che mi verrebbe da definire “blocco della mobilità culturale”: l’impossibilità, per i giovani che hanno buone idee, di dirle a una platea più ampia – e quindi di costituire una propria coscienza di classe. Non è possibile la mobilità culturale per due ragioni: economica, come ho visto sopra, ed epistemica, perché non si trovano gli standard, i metri di paragone. Si ha mobilità quando si ha modo di capire che percorso seguire; un concetto che si applicava perfettamente alla borghesia: sii moderato, lavora con impegno, studia il più possibile. Negli anni ’60/’70 non era difficile capire come scalare socialmente: prenditi una laurea, che magari porti alle professioni, e diventa ingegnere, avvocato, medico. Nel mondo della cultura la guida era parimenti semplice fino alla caduta del muro: prendi un testo borghese, fanne un’analisi marxista, distruggi il modernismo, critica i classici con la psicoanalisi. Semplifico, sto provocando. Oggi è tutto più confuso e rimescolato: l’ideologia è morta, e con lei l’ascensore culturale. Non tutti possono essere abbastanza ironici da entrare nell’olimpo dei post-strutturalisti, non tutti sufficientemente furbi da credere ai post colonial studies, non tutti riescono a essere paranoici senza essere complottisti (di Toni Negri ce n’è uno solo). Naturalmente l’opzione “abbi il coraggio della verità”, non è consentita, perché la tenzone culturale in Italia è intrinsecamente politica e, sinceramente, non tanti sono pronti a pubblicare su Il Giornale o Libero solo perché liberale e liberisti.

Concludendo, e provando a rispondere alla domanda iniziale: no, il libro di Ventura non ci aiuta a progredire. Gli riconosco l’importanza di portare una nuova critica ad alcuni tabù, come l’istruzione e il ’68, ma il testo è una pregevole raccolta di opinioni, anche originali, priva di alcun dato. Non si può affrontare la mancanza di lavoro senza una profonda analisi economica. Il libro si chiude nel pessimismo perché non è stato in grado di identificare i tanti nemici della classe disagiata. Su questo blog li stiamo lentamente proponendo per una disamina corale: lo Stato costituito da una burocrazia testarda (Ventura – c’eri quasi! – quando parli di Ibn Khaldun), il debito pubblico che impedisce di investire e costruire lavoro, la mancanza di spirito collettivo della nostra generazione.

ANDREA DANIELLI

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