MillennialsInternet, produttività e (nuove) competenze: ricette per creare valore sul mercato

A Milano c’è una società fondata da due ragazzi, laureati in economia nel 2013. Loro si chiamano Alberto Manassero e Riccardo Galli, e la loro realtà si chiama Meritocracy. Ci hanno colpito perché ...

A Milano c’è una società fondata da due ragazzi, laureati in economia nel 2013. Loro si chiamano Alberto Manassero e Riccardo Galli, e la loro realtà si chiama Meritocracy. Ci hanno colpito perché sono intervenuti in un mercato già molto sviluppato, quello del recruiting, proponendo un modello innovativo, che permette di risolvere alcuni problemi propri dei meccanismi tradizionali: scarsa conoscenza delle realtà lavorative e scarsa possibilità di orientamento da parte dei candidati, impersonalità del processo, tempi lunghi, modalità macchinose. Loro, invece, puntano tutto sulla digitalizzazione, sulla scalabilità, sull’efficienza e sulla rapidità. Il tutto mettendo al centro il candidato, permettendo a questo di orientarsi, di conoscere a pieno le realtà lavorative e di scegliere il lavoro che più combacia con le proprie competenze. Abbiamo fatto una chiacchierata con Alberto e Riccardo per farci raccontare la loro esperienza, per capire quali idee li hanno mossi e che cosa pensano di giovani, imprese e mercato del lavoro.

Partiamo dal nome che avete dato alla vostra impresa, Meritocracy. Il concetto di meritocrazia suona come un manifesto, un biglietto da visita della realtà che avete creato. Cosa c’è dietro questo nome?

Alberto: Il nome nasce da un’esperienza. Abbiamo notato sulla nostra pelle come, con i sistemi attuali utilizzati per cercare lavoro, non si riuscisse ad assicurare ai candidati quello che si meritano. L’idea è che mandare un curriculum senza sapere nulla della realtà lavorativa per cui ci si propone, sia un torto per chi prova a cercare lavoro in modo serio.

Riccardo: Il punto centrale di questo progetto è creare un luogo dove si raccolgano tantissime aziende e dove le persone riescano ad accedere immediatamente ai lavori più interessanti per loro. In questo modo, chi si registra, se ha le competenze che vengono ricercate, riesce a risaltare di fronte alle aziende come da nessun’altra parte. Da qui il nome Meritocracy.

Quali sono le vostre idee alla base della creazione di questa azienda?

R.: L’idea di creare un luogo, che prima non c’era, in cui fosse intuitivo e appagante cercare lavoro, in modo da mettere al centro il candidato e permettergli di esplorare le imprese dall’interno, capirne la visione e i progetti. In questo modo il processo di recruiting e di avanzamento di carriera passa dall’essere impersonale all’essere personalizzato, oltre che veloce.

A.: Infatti i nostri utenti non sono tanto coloro che cercano il primo lavoro, quanto piuttosto i professionisti con qualche anno di esperienza che vogliono guardarsi attorno e capire quali sono le realtà più attraenti per evolvere la propria carriera professionale. Per questo servono dati e contenuti profondi in grado di dare loro qualcosa in più di una lista di annunci.

Quali sono i tratti caratteristici del vostro modello di business?

R.: Quello che cerchiamo di fare è creare, per le imprese, un servizio di ricerca e selezione che sia totalmente digitale, che porti alle aziende candidati selezionati, motivati e consapevoli senza avere la mediazione di un headhunter, come normalmente succede.

A.: Il processo di ricerca di candidati attraverso gli intermediari tradizionali, soprattutto per competenze di una certa tecnicità, è lungo e macchinoso. Meritocracy si posiziona lì in mezzo, per dare alle imprese la possibilità di trovare competenze difficili con la facilità e la rapidità di una piattaforma online. Stiamo cercando di digitalizzare un mercato enorme che ancora è tutto manuale. Questa modalità rende il servizio più scalabile e ci consente anche di non essere mai in conflitto di interessi con il candidato.

Cosa pensate del rapporto che c’è oggi tra giovani e mercato del lavoro?

A.: Trovo che ci sia una grande sconnessione tra sistema dell’educazione e mondo del lavoro: l’uno dovrebbe preparare all’altro, ma manca una preparazione adeguata. C’è ancora una considerazione del sapere come nozione “passiva” piuttosto che come allenamento a ragionare. Siamo in un mondo che premia molto le competenze tecniche e le soft skills, e in questo contesto il nozionismo non ti permette di affrontare efficacemente le sfide di adesso. Quando si tratta di applicare le proprie competenze bisognerebbe imparare ad affrontare problemi, ad essere più creativi.

R.: Esiste un problema di mancanza di competenze sul mercato, ma non tanto perché manca la conoscenza teorica, piuttosto perché mancano la consapevolezza e gli strumenti per applicare tali competenze sul mondo del lavoro. Questo porta i giovani a non comprendere che quelle conoscenze possono essere applicate in determinati modi, e acquisite anche al di fuori dell’ambiente universitario.

E come si può affrontare, secondo voi, questo problema?

R.: Abolire il valore legale del titolo di studio, per esempio, potrebbe essere un buon punto di partenza. ​E’ un​ ​segnale per spiegare come l’università deve preparare al mondo del lavoro, purtroppo non dà diritto al lavoro di per sé. Soprattutto, può spiegare che è l’università a doversi adattare, a dover insegnare le competenze che il mondo del lavoro richiede, non quest’ultimo che dovrebbe recepire meglio le competenze insegnate in università.

A.: Dal punto di vista dell’impresa, poi, bisogna eliminare gli ostacoli che spingono a fare prodotti scarsi e che impediscono investimenti ad alto contenuto tecnologico. Se le nostre imprese cercano di far leva sull’abbassamento dei prezzi piuttosto che sugli investimenti, non riusciranno mai ad essere competitive nel mondo. Bisogna gradualmente passare a produzioni di alto valore aggiunto.

R.: La chiave non è incentivare, ma rimuovere gli ostacoli per gli investimenti.

Nel dibattito recente, spesso si sente dire da parte dei rappresentanti delle imprese che i lavori vengono offerti, ma i giovani non sono interessati. Dall’altra, spesso i sindacati rispondono sottolineando il cattivo trattamento destinato a questi giovani. C’è, secondo voi, un fondo di verità in queste posizioni o il problema è altrove?

A.: Non c’è pigrizia insita nel DNA di nessuno. Però, ad esempio, in altre parti del mondo i giovani spendono meno anni al liceo e all’Università e si presentano sul mercato a 22 anni. Da noi succede diversamente.

R.: Il problema è che stiamo sempre a discutere su come dividere la torta piccola e mai su come aumentarne le dimensioni. La domanda è come creare le condizioni di mercato in modo che una persona riesca a scaricare a terra il suo potenziale, un’azienda riesca a fatturare di più, creando valore che poi possa essere reinvestito, senza vincoli, sulle persone. Le aziende sarebbero ben contente di offrire contratti migliori se, grazie a condizioni migliori di mercato, ci fosse maggiore ritorno sull’investimento.

Da questo punto di vista, secondo voi, come sarebbe necessario intervenire nel mercato del lavoro per avvicinarsi a tali risultati?

R.: Il nostro sistema non garantisce un tessuto sociale per cui chi perde il lavoro è poi facilmente in grado di trovarne un altro. Più che sulla tutela contro la possibilità di perdere il lavoro, mi concentrerei sulla tutela in termini di probabilità di ritrovarne un altro in tempi ragionevoli. Per tutelare le persone bisognerebbe concentrarsi meno sulle persone e più sulle condizioni generali di lavoro per fare in modo che chi esce da una parte, possa immediatamente rientrare dall’altra.

A.: Aumentare la produttività dei lavoratori è un fattore fondamentale, l’unico veramente a muovere le cose nel lungo periodo. Non nel senso di aumentare le ore di lavoro, ma di aumentare la qualità dei risultati. Ciò si ottiene migliorando la preparazione, riducendo i tempi e i costi della burocrazia e del lavoro che pesano sul risultato della singola persona, abbassando il costo che grava sull’impresa, come tasse e contributi.

R.: Dobbiamo poi farci delle domande su come attrarre noi stessi dei cervelli dall’estero. Ci lamentiamo dei cervelli in fuga, ma forse dovremmo chiederci anche come mai il sistema Italia non riesca ad attrarne di nuovi dagli altri Paesi.

Leonardo Stiz

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