MillennialsSiamo una società di “soli”, non “solitari”. Ed è molto peggio

221 volte al giorno. Secondo uno studio britannico, questo è il numero di volte che un utente medio controlla il suo smartphone nel corso della giornata. Duecento. Venti. Uno. Volte. Lo studio, e...

221 volte al giorno. Secondo uno studio britannico, questo è il numero di volte che un utente medio controlla il suo smartphone nel corso della giornata.

Duecento. Venti. Uno. Volte.

Lo studio, effettuato da Tecmark su 2.000 utenti anglosassoni, è peraltro del 2014, ed è quindi probabile che questo numero sia ulteriormente incrementato negli ultimi 3 anni.

Oggi parliamo di un tema che è sociale, ben prima che economico. Ed è quello della solitudine. Nel famoso articolo dell’Atlantic a firma di Jean Twenge sugli “smartphone che hanno distrutto una generazione” si usa la cortesia di aggiungere a questa affermazione un punto di domanda finale. Leggendo però nel dettaglio i contenuti del pezzo, la punteggiatura da interrogativa si fa esclamativa. I millennials hanno instaurato un rapporto con la tecnologia un filo oltre il privilegiato. E chi tra loro lo ha fatto in maniera più intensa di altri, pare essere più incline alla depressione.

Uno dei fattori di correlazione più sconcertanti emersi dall’approfondimento di Twenge è che i ragazzi che usano social network sono più inclini alla depressione del 27% degli altri. Chi usa dispositivi elettronici per più di 3 ore al giorno, poi, ha addirittura una probabilità di sviluppare pensieri suicidi del 35% maggiore degli altri. In altre parole, i social media acutizzano il problema che promettono di risolvere: invece di rendere le persone più connesse, e quindi meno sole, grazie al “rinforzo positivo” che tutti vanno cercando quando postano un contenuto personale online, ripropone su scala temporale e spaziale allargata le dinamiche di una classe delle medie, con i “fighi” resi ancora più epici e gli “sfigati” ancora più emarginati.

Non si tratta di difendere tesi luddiste, o dell’eterna diatriba tra entusiasti tecnologici e novelli seguaci del padre di famiglia alla “Mister Fantastic”. Il fenomeno è ovviamente composto da una scala di grigi con variabili di genere (le ragazze sono più sensibili e quindi vittime privilegiate del meccanismo), sociali, geografiche. Il Giappone è la patria degli hikikomori, ovvero coloro che hanno scelto di ritirarsi dalla vita sociale, spesso cercando livelli estremi di isolamento e confinamento. In taluni casi, l’esasperazione dell’isolamento conduce fino alla morte. Si stima che nel Paese del Sol Levante all’incirca l’1% la popolazione sia soggetta a questo fenomeno, mentre in Italia – dove la patologia è arrivata con decenni di ritardo – i soggetti sensibili sono stimati nell’ordine di 1 ogni 250 abitanti (Fonte: Wikipedia).

È innegabile che il telefono sia diventato il primo filtro sul reale di cui disponiamo. Un filtro bi-direzionale peraltro: non è solo lo strumento con cui ci gettiamo in un mondo parallelo, ma anche quello con cui contribuiamo alla sua creazione proiettando nei nostri profili sociali un’immagine di noi che non ci rappresenta, o ci rappresenta solo in parte. Il fenomeno è statisticamente tanto più rilevante quanto più bassa è l’età dell’individuo: i digital-native sono ben più impattati dei loro nonni. La società che sta emergendo è una società egoriferita ed egoframmentata. Una società che necessiterà sempre più di psicologi (anche artificiali?), e che avrà al contempo sempre meno soldi per pagarli. E se il tasso di urbanizzazione ha da tempo superato ormai il 50% su scala mondiale, e al contempo è comprovato che è proprio nelle città che la tendenza alla solitudine è ancora maggiore, la direzione è sempre più quella di una società-collettivo di solitudini.

Pertanto, dato che sembra ineluttabile che la rilevanza del termine “solitudine” in questo secolo aumenti esponenzialmente, è proprio su questo termine che credo sia necessario oggi colmare una lacuna. In inglese esiste una sostanziale differenza tra i termini “solitude” e “loneliness”. “Solitude” è una solitudine consapevole, legata alla rappresentazione di una propria soggettività con solidi confini (consapevolezza dei propri vissuti, bisogni ed aspirazioni, separatezza dai propri interlocutori, non simbiosi o confusione) e quindi alla fiducia di poter affrontare autonomamente il mondo. È la solitudine del solitario, più che del solo. E, per dirla con le parole della psicoterapeuta Romina Alfano, “il solitario maturo accetta la separatezza, valorizza l’unicità e preziosità di ognuno e pone dunque le basi per una feconda relazionalità”.

“Loneliness” è invece la solitudine dell’emarginato, per scelta altrui, non propria. Il vero “solo”. Ora, io non sono un filologo, né uno psicologo. Sono un uomo del XXI secolo, e quando non so qualcosa, il primo modo per orientarmi, nell’era della conoscenza, è cercare su Google. Proprio uno degli strumenti del motore di ricerca offre degli ottimi spunti di riflessione. Si tratta del “Trend delle menzioni”. Lo trovate pertanto qui sotto, per la coppia di parole “loneliness” e “solitude”, le due diverse forme di solitudini, una “cattiva” e una “buona”:


Dai grafici si evince in maniera limpida come vi siano insomma sempre meno “solitudini felici”, e sempre più “solitudini depressive”. Le due connotazioni, molto diverse tra loro, aldilà dei suggerimenti di Wordreference.com, in italiano collassano nell’ambiguo “solitudine”, che generalmente ha sfumature comunque malinconiche, mai di pienezza di spirito. La nostra solitudine è sempre quella “dei numeri primi”, insomma, più che quella illuminata del Buddha. E questo perché l’Italia – anche se vale anche per gli altri popoli latini, dove infatti è presente un’analoga mancanza di questa sfumatura di significato – è da sempre il Paese sociale, quello della convivialità, dove stare da soli per scelta è esercizio riservato alle persone guaste: una stortura inconcepibile.

Quando siamo soli nonostante l’iperconnettività in cui ci troviamo ad essere immersi non siamo davvero “solitari”, quindi. Siamo, più semplicemente, soli. Una solitudine che si avverte anche quando comunichiamo: raramente comunichiamo per trasmettere davvero qualcosa all’altro. Stiamo parlando essenzialmente sempre di noi stessi, per metafore, metonimie, in una narrazione che fuoriesce dai social network e finisce nel vivere quotidiano. Questo sì, l’unico passaggio dal virtuale al reale prodotto da Zuckerberg e fratelli.

Ed è lì, in quell’innesco di disagio, che ci rifugiamo nei nostri smartphone, a cercare rinforzi positivi che produrranno invece il più scolastico dei circoli viziosi.

FILIPPO LUBRANO

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