MillennialsE’ ora di discutere sul futuro dello Stato

Noi millennials siamo cresciuti con la globalizzazione. Provate a pensarci: internet, le nuove tecnologie, la digitalizzazione, la comunicazione globale e immediata, la caduta di molte barriere eco...

Noi millennials siamo cresciuti con la globalizzazione. Provate a pensarci: internet, le nuove tecnologie, la digitalizzazione, la comunicazione globale e immediata, la caduta di molte barriere economiche e politiche che rendevano più difficile superare i confini dei nostri Stati, tutto ciò ha reso noi la generazione più abituata a contatti e stimoli transazionali. Cercare lavoro all’estero non è più difficile che cercarlo in Italia (basta guardare i dati ISTAT su giovani e lavoro: quattro laureati su dieci sarebbero pronti a trasferirsi per lavorare). Siamo esposti a culture anche molto distanti dalla nostra. Su molti versanti, dall’educazione, al lavoro e alla cultura, subiamo la concorrenza non più solo dei nostri vicini di casa, ma dei nostri coetanei che si trovano in tutto il mondo.

Insomma, la globalizzazione economica, ma anche quella culturale, si è evoluta molto più rapidamente degli Stati nazionali. Per questi, l’apertura è una scelta quasi obbligata: in un contesto dove l’economia dipende dagli scambi commerciali con il mondo, dalla competitività delle nostre imprese e dei nostri prodotti all’estero, chiudersi nella dimensione nazionale sarebbe un suicidio. Ciò se non altro per il fatto che la globalizzazione dell’economia non si può fermare attraverso politiche protezionistiche. La smaterializzazione della proprietà, la trasformazione in senso finanziario del capitalismo, il potenziale di ricchezza che gli scambi internazionali sprigionano sempre di più fanno sì che molte attività economiche siano diventate “stateless”: sono in grado di funzionare da sole, slegandosi sempre di più dalla forza conformatrice degli ordinamenti statali. Le vicende dell’economia non sono le uniche a farsi più grandi degli Stati. Lo sono anche le vicende che riguardano la sicurezza, la difesa, l’ambiente, il clima. E si potrebbe andare oltre. Gli Stati, tendenzialmente, stanno sempre più diventando troppo piccoli per affrontarle. E noi cittadini, dunque, siamo sempre più sforniti degli strumenti per partecipare a questi processi, oltre che per controllarli e proteggerci da questi, laddove serve.

Il fatto che la dimensione statale conti sempre meno non crea problemi solo al piano “superiore”, ma anche a quello “inferiore”. Quello che succede alle culture e alle identità locali in un contesto di globalizzazione sempre più ampia è che si trovano improvvisamente esposte alla concorrenza delle altre culture, magari anche molto distanti geograficamente. Nella dimensione globale le identità locali si sentono molto più a rischio di diluizione. In un contesto dove determinati usi e culture si globalizzano e diventano mainstream, le peculiarità locali sembrano contare sempre meno e sentono minacciata la loro stessa esistenza. Che fare? E’ naturale che si generi una spinta verso il basso, una pressante richiesta di un maggior riconoscimento istituzionale di quei livelli di governo più vicini alle culture locali, i quali sono più in grado di tutelarle e di preservarne i caratteri in mezzo al marasma della globalizzazione. Presente la Catalogna? Non è l’unica: i regionalismi in Europa – e nel mondo – si fanno sempre più sentire. Siamo in una fase di spinta verso la decostruzione delle strutture statali così come le conosciamo.

Le due spinte generate dalla globalizzazione, verso l’alto e verso il basso, non sono incompatibili. Ci sono entrambe, avvengono insieme e sono l’una la causa dell’altra. Il succo del discorso è che lo Stato nazionale risulta sempre più essere quella struttura che si pone nel mezzo, incapace di rispondere sia alle istanze globali sia a quelle locali. Troppo piccolo per le cose grandi e troppo grande per le cose piccole. Siamo sicuri che, in futuro, esso rappresenti il livello giusto per l’esercizio delle funzioni fondamentali ad esso attribuite? O forse alcune di queste andrebbero sempre più ripartite tra il livello più alto (spoiler: l’Unione europea) e quello più basso (altro spoiler: le regioni, qualsiasi sia la loro conformazione geografica)?

A noi millennials la sfida di batterci per un sistema che vada verso questa direzione. D’altronde, ne va della nostra tutela. In un contesto ancor più complicato dalle migrazioni e da una demografia che sta cambiando, sarà necessario, per esempio, rivedere alcuni servizi fondamentali tradizionalmente esercitati dallo Stato a cui siamo abituati, in primis il welfare. Ripensare la ripartizione di alcune determinate prestazioni verso l’alto e verso il basso, strutturando per esempio delle autonomie più forti, non sarà soltanto auspicabile in termini di tutela del cittadino, ma anche per gestire meglio le risorse e giocare così la sfida del diventare attrattivi nel contesto della globalizzazione, soprattutto in termini di mobilità di giovani.

Di sicuro lo Stato nazionale, per noi, assumerà nel futuro un ruolo e una presenza diversa rispetto alle vecchie generazioni. E’ difficile sdoganare questo tipo di pensiero: lo Stato così com’è rappresenta una struttura che fa da preconcetto al nostro modo di ragionare e di intendere la realtà. Forse però, sarà sempre più necessario rimettere tutto in discussione.

Leonardo Stiz

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