Casi circoscritti, probabilmente sempre accaduti in migliaia di classi di tutto il mondo, che però negli ultimi anni hanno trovato un gigantesco megafono nella tecnologia. Uscendo dalle aule e attirando l’attenzione dei media. Dando più di uno spunto per avviare una riflessione che coinvolge alunni, docenti e famiglie. Le aggressioni ad opera di studenti nei confronti dei propri professori, seguendo le cronache, sembrano fenomeni all’ordine del giorno. Dall’inizio dell’anno siamo già a una decina di episodi riportati da stampa e telegiornali. Eppure, stando a quanto hanno raccontato i circa 7mila studenti – di scuole medie e superiori – interpellati da Skuola.net, il fenomeno è meno grave di quanto si percepisca. Almeno in apparenza.
In un caso su tre si tratta di aggressioni fisiche
Solo il 7% dei ragazzi, infatti, dice di aver assistito a uno scatto d’ira di un proprio compagno che aveva come bersaglio il docente di turno. Stiamo parlando di meno di 1 studente su 10. E, nella maggior parte dei casi, si è trattato di aggressioni verbali: il 55% degli intervistati riporta che il coetaneo si è ‘limitato’ a insulti e improperi. Più di un terzo delle volte, però, lo studente è passato alle vie di fatto, alzando le mani verso l’insegnante: è successo nel 36% degli scontri tra alunni e professori. Che, in termini assoluti, si traducono in pochissimi episodi. Comunque da condannare senza se e senza ma.
Davanti al bullo si clicca su ‘rec’
Il problema, semmai, è un altro. L’atteggiamento della classe. Perché, quando accadono cose del genere, gli altri studenti non intervengono. Anzi, contribuiscono a far diventare virale la scena, tra chi frequenta la scuola (e non solo). Mettendo in atto una sorta di cyberbullismo ai danni dei prof. Nel 27% dei casi, infatti, i ragazzi che hanno assistito allo scontro si sono limitati a riprendere con lo smartphone, per scattare foto o girare video di quanto stava avvenendo, da caricare online sui social network o passarsi via chat, ridicolizzando il docente o esaltando l’impresa. A cui va aggiunto un 20% che ha osservato senza fare nulla. Il 16% ha preso addirittura le parti del compagno. Appena 1 su 5 – il 21% – ha cercato di placare gli animi.
Molti professori preferiscono non reagire
Forse anche per questi strascichi ‘tech’, per la paura che si gonfi a dismisura l’attacco nei propri confronti, ben oltre le mura della scuola, che tantissimi professori decidono di subire in silenzio. Proprio quello che è avvenuto più spesso negli ultimi episodi. Sempre in base ai racconti degli studenti, il 43% dei docenti non reagisce alla violenza (fisica o verbale che sia). Il 57%, invece, risponde all’affronto adottando la stessa arma usata dall’alunno. Un quadro che vede gli insegnanti messi sotto pressione anche da un altro fronte: quello dei genitori. Perché quasi 1 ragazzo su 10 sostiene che pure le famiglie si danno il loro bel da fare: l’8% dice che più di un genitore ha offeso un docente per il trattamento riservato al figlio (qualcuno ha persino alzato le mani). E allora il problema diventa sistemico. I numeri tornano.
Violenza a scuola: i casi sono maggiori delle punizioni
Ma c’è un’altra questione che emerge: la mancanza di un sistema che difenda le vittime della violenza scolastica; siano essi insegnanti o studenti. Perché i dati diffusi dal Miur sule bocciature per motivi disciplinari ci dicono che non sempre a un’azione negativa (da parte degli studenti) corrisponda una reazione sanzionatoria (da parte degli istituti). Nell’anno scolastico 2016/2017, ad esempio, solo lo 0,1% degli studenti è stato fermato con il 5 in condotta. Si tratta di appena 1.835 ragazzi su quasi 2 milioni di iscritti alle superiori (dal primo al quarto anno). Ma dobbiamo immaginare che i casi limite siano molti di più. Basterebbe aggiungere a quel 7% già citato (numeri, lo ricordiamo, solo presunti) i tantissimi che quotidianamente vedono accanirsi i bulli contro i propri coetanei all’interno di aule, cortili e corridoi. Si ha come l’impressione che solo quando la vicenda diventa mediatica, come quelle delle scorse settimane, la scuola è in qualche modo ‘costretta’ ad agire. Nel resto dei casi si preferisce adottare una linea morbida. Magari per tentare di recuperare il ragazzo o per non scatenare le proteste.
L’arma in mano alle scuole: con 15 giorni di sospensione scatta la bocciatura
Eppure il Decreto Ministeriale n.5 del 16 gennaio 2009 – ‘Criteri e modalità applicative della valutazione del comportamento’ – all’articolo 2, comma terzo, recita esplicitamente: “La valutazione del comportamento inferiore alla sufficienza, ovvero a 6/10, riportata dallo studente in sede di scrutinio finale, comporta la non ammissione automatica dello stesso al successivo anno di corso o all’esame conclusivo del ciclo di studi”. Quanto basta per passare dalle parole ai fatti. Certo, si deve pur sempre trattare di casi estremi. Non basta una semplice insubordinazione o un atteggiamento violento latente per portare dritti verso la bocciatura. A stabilire il confine tra il perdonabile e l’inaccettabile ci pensa, nuovamente, il D.M. 5/2009: “la valutazione insufficiente del comportamento […] – si legge all’articolo 4, comma 1 – deve scaturire da un attento e meditato giudizio del Consiglio di classe, esclusivamente in presenza di comportamenti di particolare gravità riconducibili alle fattispecie per le quali lo Statuto delle studentesse e degli studenti […] nonché i regolamenti di istituto prevedano l’irrogazione di sanzioni disciplinari che comportino l’allontanamento temporaneo dello studente dalla comunità scolastica per periodi superiori a quindici giorni”.
I Rav parlano chiaro: meglio il dialogo dei provvedimenti
Ma le scuole sembrano voler sposare una filosofia diversa, più zen. È tutto scritto nero su bianco. Nei Rapporti di Autovalutazione (Rav) che gli istituti compilano annualmente e poi pubblicano sul portale del Miur ‘Scuola in chiaro’. I dati sono abbastanza eloquenti. Nel nostro Paese, in media, quasi 6 scuole su 10 – 58% – riportano almeno un episodio violento avvenuto nell’ultimo anno censito. Ma meno di un terzo di questi – il 31% – sfocia in azioni sanzionatorie (come la sospensione). E solo in poco più di 1 caso su 10 – 14% – si opta per azioni costruttive (lavori socialmente utili, ecc.). Il più delle volte – 54% – si preferiscono adottare azioni interlocutorie, votate al perdono (richiami verbali su tutte). Tendenze che, con proporzioni simili, si riscontrano in tutte le regioni d’Italia. Ma, ogni tanto, la mano pesante non guasterebbe affatto. Perlomeno quando si oltrepassa il limite. E non è così raro.