A leggere del Comitato di conciliazione contemplato nel Contratto di governo in discussione fra Lega e M5S vengono un po’ i brividi, diciamocelo.
Non si può sempre tirare in ballo il fascismo, va bene, ché poi ti danno del comunista (che noia mastodontica, n.d.r.). Però il Gran Consiglio del fascismo così nacque, come istituzione “informale” parallela, come una serpe messa in seno alla debole architettura costituzionale tracciata dallo Statuto Albertino.
Una serpe poi divenuta organo costituzionale del Regno con la legge 9 dicembre 1928, n. 2693, che qualificò il Gran Consiglio come «organo supremo, che coordina e integra tutte le attività del regime sorto dalla rivoluzione dell’ottobre 1922».
Ancor prima, durante la Rivoluzione francese, il Comitato di salute pubblica nacque anch’esso come organo di sorveglianza sul potere esecutivo. Composto dai maggiori rivoluzionari francesi, venne istituito dalla Convenzione Nazionale nel 1793 con la funzione di fare da tramite fra la Convenzione stessa (che al tempo costituiva la forma embrionale del futuro parlamento) e i ministri del governo.
Di fatto, però, fu il Comitato di salute pubblica ad esercitare sempre il potere esecutivo, sottraendo ogni autonomia decisionale ai ministri.
Ogni rivoluzione che si rispetti, in fondo, deve avere il suo comitato esterno al potere costituito. Si tratta, infatti, di un efficace espediente per demolire in fretta, ed al riparo dai meccanismi istituzionali di bilanciamento fra poteri, gli organi esistenti per sostiturvi i propri.
D’altronde, vale sempre quello che diceva Hannah Arendt: “Il rivoluzionario più radicale diventerà sempre un conservatore il giorno dopo la rivoluzione.”
Bene, adesso è la volta del Comitato di conciliazione voluto da Salvini e Di Maio quale nuovo organo ausiliario del Consiglio dei Ministri che, stando al Contratto di governo, avrà la funzione di sedare i conflitti e trovare posizioni comuni nel caso si presentino “tematiche estranee al contratto ovvero questioni di carattere d’urgenza e/o imprevedibili al momento della sottoscrizione del contratto”.
Comprese, si badi, decisioni in materie assolutamente rilevanti, quali ad esempio (sempre stando al Contratto di governo): “Crisi internazionali, calamità naturali, problemi di ordine e di salute pubblici”. Materie delicatissime, in cui la decisione di un organo estraneo all’architettura costituzionale, come tale non solo non eletto, ma nemmeno contemplato, è da giudicarsi puramente eversiva.
Naturalmente, tale nuovo organismo sarà presieduto dal Presidente del Consiglio dei Ministri, dal capo politico del M5S e dal segretario federale della Lega. E qui sta il punto: da due capi partito. Si tratta dell’affermazione dei nuovi guardiani della rivoluzione in contatto messianico diretto col Popolo.
Evidente la mano di Davide Casaleggio in questo disegno. Evidente il tentativo di far guadagnare posizioni all’utopia della democrazia diretta, che rappresenta il pallino del new world guru.
In fondo, Casaleggio l’aveva chiaramente detto circa un mese fa, in quella famosa intervista al Washington Post: “La democrazia diretta, resa possibile dalla Rete – disse il guru – porterà alla destrutturazione delle attuali organizzazioni politiche e sociali.”
Questo lo scopo dei Comitati rivoluzionari: abbattere le strutture della intermediazione politico-istituzionale esistenti per sostiurvi le proprie. Un percorso che deve per forza partire dall’esterno, da un territorio privo di regole se non le proprie.
Stringi stringi, a ben vedere si tratta di un tentativo di rivalsa della partitocrazia, che, utilizzando lo specchietto per allodole della democrazia diretta, cerca di contare ben oltre il ruolo di semplice intermediazione che l’art. 49 Cost. assegna ai partiti.
In questo quadro, nella confusione generata dal narcotico populista ormai imperante, il nuovo Comitato della political new age italiana insidia al cuore la stessa Costituzione, saltando il Parlamento e mirando al controllo diretto sull’esecutivo, da convertirsi in semplice longa manus dei due capi cordata.
I democraticisti più radicali grideranno vittoria, ma non sanno in quale guaio si stanno cacciando, troppo impegnati a contemplare, inebetiti, un dito pieno di anelli e lustrini, mentre la luna si fa nera.
C’è pochissimo da cantar vittoria, infatti, in queste straripanti mire espansionistiche della democrazia diretta.
Di solito si critica il mito di una assoluta democrazia diretta con l’argomento funzionalista: in comunità molto numerose non è materialmente possibile investire tutti i consociati del potere di decisione, per cui la delega elettiva diventa necessaria.
Il grande male della democrazia diretta, però, è un altro: precludere responsabilità, rendiconto e controllo.
Pochi sono veramente propensi a mettersi seriamente in discussione e nessuno risponde davvero a se stesso. Nel confronto con altri decisori diretti, la scelta sbagliata sarà solo una scelta come un’altra e il grande capo (sempre necessario, anche in democrazia diretta, se non altro nel ruolo formale di esecutore della volontà del Popolo) sarà l’unico esaminatore.
Così, però, si mina all’origine il progresso, che è il frutto di un continuo processo di trial and error: di tentativi, rendiconti, errori e responsabilità che solo l’intermediazione fra delegante e delegato può consentire.
E non mi vengano a raccontare che un simile organo esiste già, perché il Consiglio di gabinetto previsto dall’art. 6 della legge n. 400 del 1988 è un organo tutto interno al Governo e composto solo da ministri, non da soggetti esterni ed estranei ai passaggi elettivi previsti dalla Costituzione.
Ma Lega e M5S non difendevano a spada tratta la Costituzione?
Buon giorno amici.
E ben svegliati.