Una vita dominata dalla dimensione digitale, con giornate scandite da un controllo costante sulla propria identità online. Eccola, in estrema sintesi, la quotidianità dei ragazzi di oggi. Perché, nonostante le campagne di promozione sull’uso consapevole delle tecnologie (smartphone, tablet e computer su tutte), siamo ben lontani dall’obiettivo. E le conseguenze – purtroppo negative – si vedono tutte: incapacità a gestire le relazioni con gli altri, isolamento dalla vita offline, scarsissimi livelli di attenzione. Vere e proprie patologie che colpiscono sempre di più le nuove generazioni. A certificarlo è una lunga ricerca svolta dall’Associazione Nazionale Di.Te. (Dipendenze Tecnologiche, GAP e Cyberbullismo), in collaborazione con Skuola.net, condotta su un campione di 23.166 persone, di età compresa gli 11 e i 26 anni.
Tra gli 11 e i 14 anni, un terzo è connesso oltre 10 ore al giorno
Iperconnessione: eccolo il nome del male che affligge i più giovani, specialmente se sono minorenni. In media, il 32,5% dei ragazzi tra gli 11 e i 26 anni è online tra le 4 e le 6 al giorno. Ma c’è chi va ben oltre: più del 17% del campione resta connesso tra le 7 e le 10 ore. E il 13% supera addirittura le 10 ore. Dati che, come detto, crescono al calare dell’età: dagli 11 ai 14 anni, ad esempio, la percentuale di quanti ammettono di passare più di 10 ore al giorno online, sale al 35%. Costante ad ogni età è, invece, la compulsione con cui si controlla lo schermo dello smartphone, alla ricerca di nuove notifiche: farlo con una frequenza di 10 minuti è l’esigenza di circa il 40% dei ragazzi. Dai 21 ai 26, invece, la maggior parte – quasi il 30% – riesce a controllarsi un minimo e lo fa circa ogni 30 minuti.
Livelli di attenzione “paragonabili a quelli di un pesce rosso”
Il risultato più evidente di questi comportamenti: un crollo nella capacità di attenzione dei ragazzi, drasticamente diminuita. Se fino a qualche anno fa i più diligenti riuscivano a mantenerlo anche per 20 minuti consecutivi, oggi “è paragonabile a quella di un pesce rosso, circa 9 secondi”. Così commenta questo passaggio della ricerca, Giuseppe Lavenia, psicologo, psicoterapeuta e Presidente dell’Associazione Nazionale Di.Te.
Cresce la distanza tra vita reale e digitale
Tutto ciò, naturalmente, ha pesanti riflessi sulla vita sociale delle persone: “Aumentano la distanza relazionale fra noi e gli altri. La vita offline però non è uguale a quella online: solo nella prima si utilizzano tutti i sensi, si attivano meccanismi psicofisici diversi”, osserva il Presidente Di.Te. Ma non è tutto: “Anche la capacità di provare sentimenti ne risente. Sì, perché emozione e sentimento non solo la stessa cosa. La prima è frutto di un momento, mentre il secondo richiede tempo, intuito, capacità di coltivare la relazione e di farla crescere. Provare e sentire non sono la stessa cosa”, ribadisce Lavenia.
L’importanza dell’educazione all’uso delle tecnologie
“La dimensione digitale non è più trascurabile e non è più etichettabile come solo virtuale: questo concetto, infatti, rimanda a una realtà che non esiste o che è in potenza. Si tratta, al contrario, di una dimensione reale e che ha sue precise caratteristiche nell’ambiente digitale”, rimarca Daniele Grassucci, Co-founder e Direttore del portale Skuola.net. “Non è possibile tornare indietro – prosegue Grassucci – ma la cosa che possiamo fare è utilizzare gli strumenti tecnologici con una consapevolezza diversa cominciando anche a monitorare quelli che sono gli effetti di un uso non regolamentato ed educato di questi mezzi. Come accade nel mondo analogico, dove si insegna ai figli a guardare ai pericoli con le attenzioni del caso, così si dovrebbe fare anche nel mondo digitale”.
Fondamentali i genitori, ma anche loro sono ‘distratti’
Si potrebbe partire da una maggiore condivisione della propria vita online con i famigliari. Un ‘dialogo’ ancora molto marginale. In media, il 18,5% delle ragazze e il 20% dei ragazzi minorenni (tra gli 11 e 17 anni) dichiara di non farlo mai. Nella stessa fascia di età, lo fa “ogni tanto” il 30% del campione, mentre solo il 20% condivide raramente con mamma e papà quanto fa sui device. Ma la colpa di questa situazione non è solo dei ragazzi: “In un’indagine precedente – dice ancora Lavenia – in cui abbiamo intervistato 1.000 adulti tra i 28 e i 55 anni e 1.000 giovani tra i 14 e i 20 anni, abbiamo rilevato che nel 38% dei casi la risposta dei genitori ai figli che chiedono loro di parlare è ‘un attimo’. Spesso, rispondono così perché sono loro i primi a essere affaccendati sul loro smartphone”.
Ritrovare spazi per il dialogo, in cui i telefoni restano spenti
E allora, come procedere? “Si dovrebbe iniziare a riparare a questi momenti, che vengono percepiti dai figli come disconferme, disvalore. I ragazzi – continua Lavenia – non si sentono importanti per i genitori e questo li fa chiudere in sé stessi. La condivisione, così, verrà sempre più a mancare. Si deve stabilire un momento in famiglia in cui tutti i telefoni e tutti gli strumenti digitali che possono avere una connessione rimangono spenti o silenziosi senza vibrazioni o distrazioni di sorta. In quel tempo si parla, si discute, ci si confronta”.
Online le offese viaggiano ad altissima velocità
La ricerca sull’utilizzo delle nuove tecnologie da parte dei giovani, però, mette in luce anche un altro dato che deve fare riflettere: quasi il 15% del campione ha detto che riceve di tanto in tanto commenti offensivi sulle chat o sui social network, e la stessa percentuale di ragazzi risponde con lo stesso registro a queste vessazioni, offendendo. Più del 50% dei ragazzi tra gli 11 e i 14 anni, inoltre, non parla ai propri genitori di queste esperienze spiacevoli. E se si vanno a leggere i dati relativi, rispettivamente, ai giovani che hanno tra i 15 e i 17 anni e a quelli compresi tra i 18 e i 20 anni i numeri calano solo di due-quattro punti percentuale.
Il ruolo della scuola contro il bullismo digitale
“Il cyberbullismo, perché di questo si tratta, è un fenomeno che ci deve tenere sempre in allerta: come purtroppo abbiamo avuto modo di leggere dalle cronache può avere esiti drammatici. Dovremmo fare ancora più prevenzione – sostiene Lavenia – e ritornare a dare valore al corpo, all’empatia, far comprendere ai ragazzi come stanno quelli che vengono aggrediti con parole di odio o offese. Ma stando così tante ore online i sensi vengono poco allenati, dunque voglio ribadire ancora una volta l’importanza dello strumento del detox tecnologico condiviso in famiglia. Basterebbero tre ore a settimana”. Mentre Daniele Grassucci di Skuola.net rilancia: “Anche il nostro sistema scolastico dovrebbe lavorare di più sull’educazione all’uso di queste nuove tecnologie. C’è ancora tanto da fare. Un lavoro sinergico che deve coinvolgere, dunque genitori, scuole, istituzioni e gli stessi ragazzi”.