Il bambino è una splendida parentesi. Non è necessario scivolare nel patetico per sentire la verità racchiusa in un corpicino legato agli spazi di luce. Magari un occhio disattento, utilitarista e cinico passa oltre e non vede l’Intero raffigurato da una «manina» e due occhietti vispi in cerca di respiri. Eppure la manina non è solo quella intercettata in luoghi caldi e tranquilli, perché spesso può significare altro.
Dostoevskij si è gettato a capofitto sull’altra manina, quella che chiedeva centesimi di pace dans la rue di Pietroburgo. Più in generale, il suo chiodo fisso è il dramma attraversato dai bambini in un’epoca segnata dal gelo delle solitudini, dai primi battiti del nichilismo generalizzante, da una crisi profonda che intorno alla seconda metà dell’ottocento inquinava ogni settore.
Antonina Nocera, nel suo prezioso volume (Angeli Sigillati, FrancoAngeli 2010), analizza proprio la sofferenza dei fanciulli in Dostoevskij. Con una bella prosa e insolita passione, l’autrice scende nei minimi dettagli di un problema che ha visto impegnato in modo forse ambiguo il celebre scrittore russo. Le storie sono note. Si tratta di bambini strappati troppo presto all’incanto. Violentati fisicamente o nelle intenzioni. Derisi e umiliati. Ridotti a giocattoli lanciati per aria e uccisi per sport dinanzi al terrore della madre. Fregati con la malizia perversa di qualche grasso borghese. Maltrattati con le armi della diplomazia sofista nelle stanze del diritto. Bambine con una corda al collo. Figlie vendute a poco prezzo nel grigio di una campagna o in salotti chic. Bambini, puntualizza Nocera, sempre più piccoli. Lo scrittore, infatti, nelle sue opere tende ad abbassare gradualmente l’età al fine di colpire il lettore nel suo intrinseco.
Chi non ha urlato, almeno una volta, la domanda umana di Ivan ne I fratelli Karamazov: «Posto che tutti si debba soffrire, per comperare a prezzo di sofferenza la futura armonia, che c’entrano i bambini?».
Non è cambiato molto dal mio punto di vista! La manina continua a mordere le deboli coscienze del ventunesimo secolo. Bambini-soldato si lanciano nel vuoto del fondamentalismo; piccole creature inseguite nei cieli del demone e stuprate dall’elegante miliardario; bambine che non giocano con i fiori e non corrono più nel bosco della protezione, perché l’incubo di un Babbo Natale che parla d’amore è dietro l’angolo (De André); e ancora, bambini picchiati dall’alcol, o inghiottiti da un mare postmoderno e poi celebrati in uno stupido selfie. Guance perfette a cui la madre rivolge un arrivederci pieno di profumi, come quel vecchio addio consegnato con i suoni dell’altrove a Cecilia nell’ora manzoniana della peste. Cambiano perciò le epoche e in parte gli strumenti della notte, ma non si sposta di una virgola quella vulnerabilità posizionata nelle vetrine del male e sbeffeggiata dai paladini del Gott ist tot.
L’autrice dedica un capitolo al Cristo di Dostoevskij. Il filosofo russo, a suo parere, scorge persino nel dipinto del Cristo un barlume di senso entro cui custodire il corpicino degli «angeli sigillati».
Andrebbe aggiunto, a tal proposito, che Dostoevskij nutre dubbi importanti sulla Verità, Dio e la trascendenza, ma è appunto convintissimo del senso inaudito della croce. Anzi, se un giorno qualcuno riuscisse a scoprire la Verità e quest’ultima si rivelasse diversa o addirittura nemica del volto inchiodato nella croce, lui a quanto pare rifiuterebbe la Verità sempre in nome di Gesù e del messaggio cristiano. In fondo, se Rachele piange i suoi figlioli, e il mondo produce carceri, orrori e inerzie, Cristo resta la meta, l’odore intenso dell’empatia, la carezza inesauribile, la porta dell’immensamente altro che apre al significato dell’umanità più vera.