In un’epoca che ha eliminato gli occhiali della metafisica, i turbamenti dell’anima, le note dello Spirito, quel «forse» che tende a far arrossire i ricercatori del sublime, ovviamente il linguaggio platonico suona come pura barzelletta. Figuriamoci se nella stagione pornografica del nulla, guidata dalle urla dell’«ultimo uomo», possano parlare i versi del sovrasensibile.
Il mio Platone è questo: il pensatore che ha regalato ai teorici del cristianesimo (su tutti Agostino) e al primo umanesimo un’originale attrezzatura per irrobustire la fede. Si pensi all’elogio della progressiva morte del corpo quale inizio autentico della verità, cioè la fine della materia, dei sensi, della consueta sporcizia che ci lega per un po’ al qui e l’inedita affermazione di una purezza idonea a percorrere finalmente senza ostacoli le onde dell’infinito.
Vincenzo Fiore mi ricorda che in Platone vi è dell’altro. Nel suo bel volume (Platone totalitario, Historica 2017), il giovane studioso analizza le più importanti interpretazioni novecentesche del pensiero politico di Platone. In particolare si sofferma sui giudizi severissimi di Popper e sulla furba ricezione adoperata dai campioni del totalitarismo: i soviet, i nazisti e una fetta del fascismo italiano. Popper, com’è noto, scorge nella visione normativa del filosofo ateniese il primo progetto di società chiusa e tirannica. Con la distruzione di ogni germe individualista e di un’adeguata separazione tra la sfera privata e pubblica, il suo Platone avrebbe ispirato i geni (moderni) del male.
I russi, però, hanno provato giustamente ad attualizzare il presunto femminismo in Platone, ovvero la rilevanza politica delle donne e soprattutto la loro possibilità di accedere al potere. E così la commissaria del popolo Aleksandra Kollontaj diviene la prima donna della storia eletta a un’alta carica governativa; più in generale, l’impegno profuso durante i primi fermenti della Rivoluzione d’Ottobre è, in proposito, quello di svincolare il ruolo della donna dallo scenario borghese, dal modo di produzione capitalistico e da una vena ipocrita che la costringeva a convivere con l’uomo in una posizione di sostanziale inferiorità. Come ricorda Fiore (che di recente ha dedicato una monografia anche alla figura di Emil Cioran), dopo il 1923 l’Urss si scorda di Platone e manda in soffitta tutte le sue opere.
L’autore lascia intendere che se qualcosa di buono si trova nelle intenzioni sovietiche, non si può salvare niente del totalitarismo nazista. I signori di Auschwitz, infatti, hanno strumentalizzato le indicazioni platoniche, specie in merito all’eugenetica, al solo scopo di portare a compimento la più grande tragedia dell’umanità. Il lettore avrà modo di scoprire la conclusione di questo libro, a cui rinvio.
Per quanto mi riguarda, riprendo ciò che dicevo all’inizio. Il mio Platone è quello dell’Idea, dell’imperituro, di un’eminente offesa ai nichilismi di ogni tempo e di una ricca spiritualità che può sperimentare la gioia di un istante alternativo. Ecco, magari della Repubblica faccio mia la critica ironica che Socrate rivolge a Trasimaco e alla concezione sofista secondo cui la giustizia è «l’utile di chi è superiore». A dimostrazione del fatto che i lupi del XX sec. forse avrebbero dovuto bussare in altri cancelli per raccogliere le fonti del loro odio.