Buona e mala politicaAdesso concentriamoci sulle “europee”

Impedire che la rappresentazione di falsi e retrogradi conflitti domini la scena della competizione elettorale. Stefano Rolando Dilato qui un poco la breve riflessione fatta ieri nel corso ...

Impedire che la rappresentazione di falsi e retrogradi conflitti domini la scena della competizione elettorale.

Stefano Rolando

Dilato qui un poco la breve riflessione fatta ieri nel corso dell’incontro al Circolo di via Cassiodoro a Roma, meritoriamente animato con spirito post-azionista da Gianna Radiconcini, che, con la competente moderazione di Giampiero Gramaglia, ha visto ragionare alcuni europeisti italiani con esponenti della stampa estera in Italia (tutto registrato da Radioradicale che riproporrà a breve la discussione).

Il quesito che ho posto credo costituisca uno dei temi dirimenti della campagna elettorale per le europee che è in avviamento.

DIciamo che nel decennio della crisi economico-finanziaria globale (2008-2018) l’integrazione europea, anziché trovare ulteriore slancio a fronte della maggiore aggressività del processo di globalizzazione, e’ stata inchiodata dallo scontro della spaccatura verticale europea (governi e popoli, da una parte e dall’altra) tra chi ha attribuito alla identità europea il solo valore del mercato e chi, al contrario, ne ha viste le principali caratteristiche nella identità politica.

Quando una polarizzazione di questo genere prende piede – mettendo al centro il nodo più importante nel rapporto tra voto e appartenenza, cioè il tema identitario – la forza comunicativa del soggetto-oggetto della disputa tende ad azzerarsi. Come infatti e’ successo.

La narrazione prodotta dall’Europa si è infatti sempre più rifugiata in ambiti tecnico-regolamentativi, schivando continui veti interni e conflitti tra Parlamento e Consiglio da un lato (prevalenza della visione intergovernativa) e Commissione (prevalenza della visione che una volta si chiamava “comunitaria”).

Un conflitto che si è riprodotto in seno ai gruppi politici europei maggiori e soprattutto a quello di maggioranza relativa, cioè l’area dei Popolari, ma a ruota anche a quello dei Socialisti.

Dentro a questo conflitto molti temi. Da un lato il mancato aggiornamento culturale nella elaborazione dell’idea di Europa, rimasta ancora sostanzialmente quella dell’età di Delors. Dall’altro lato il morso della crisi economica sulle condizioni di molti paesi in cui la mediocrità delle classi dirigenti politiche ha optato per scaricare sull’Europa le colpe della crisi stessa, fingendo di dimenticare che ciascun paese non è inquilino ma condomino della “Casa”.

A poco a poco questa conflittualità ha disaffezionato i cittadini e polarizzato la cultura stessa dello scontro creando involuzioni proprio quando in alcuni paesi la crisi andava verso soluzioni e superamenti, creando cioè condizioni di ripresa che avrebbero potuto sostenere una ripresa di visione comune. Proprio nella fase in cui l’aggressività della tripolarita’ internazionale (l’America di Trump, la Russia di Putin e la Cina del dirigismo comunista-capitalista) avrebbe dovuto indurre l’Europa del buon senso e della volontà competitiva a riprendere in mano i suoi dossier sui livelli più avanzati di integrazione (fino a ridare fiato persino all’antico sogno federalista), il conflitto si è spostato su un altro registro. Incredibilmente e’ bastata l’impennata congiunturale del processo migratorio ( fenomeno perenne, prevedibile e non cancellabile) soprattutto nel biennio 2014-2015, per scatenare un opportunismo politico di settori prevalentemente di destra, ma con il concorso o meglio con la pavidità di alcuni settori della sinistra, teso a generare una teoria neo-sovranista, sconfitta dalla storia del ‘900 e riaffiorata con poche basi filosofiche, quasi nulle basi economiche e gravi conseguenze sociali, per generare il nuovo conflitto a scala europea. Conflitto presto largamente sposato dai media, sempre alla ricerca di facili semplificazioni pugilistiche: sovranismo (fatto di presunta passione nazionale) contro europeismo (fatto di presunta arida tecnocrazia pressoché apolide).

Abbiamo assistito al ribaltamento di un vecchio conflitto vero anche se ormai per alcuni versi malsano, comunque poggiato su interessi strutturali, in un nuovo conflitto tutto giocato sullo sfruttamento comunicativo delle paure e sull’emarginazione dalla politica dei portatori di analisi, di storia, di interpretazione, di seria prevedibilità scenaristica.

Il nuovo quadro governativo gialloverde italiano si è collocato perfettamente come contesto di accelerazione di questa assurda e retrograde condizione. Si è allineato, inspiegabilmente per la tradizione italiana, alla logica del Club di Visigrad (Polonia e Ungheria in testa) e non ha trovato argine, fino ad ora, a causa della crisi di spaesamento dei partiti del centrosinistra in opposizione. Che ora hanno pochissimo tempo per ritrovare determinazione e soprattutto capacità di sintesi comunicativo-culturale per riportare non solo razionalmente ma anche emozionalmente le italiane e gli italiani attorno a ciò che conta e contro ciò che falsifica l’evoluzione della loro storia.

La domanda che avevo posto a quell’uditorio – pur intervenendo in grandissima sintesi – e’ quella che tanti si sono fatti in questo periodo: come è stato possibile che ci sia scappato di mano il controllo di questo passaggio storico?

Siccome non è il momento di proseguire con la caccia ai colpevoli, ma incalza ora il tema di riorganizzare un convincente ragionamento che riconnetta interessi e comprensioni (su questo terreno credo in fondo che si sia mossa la redazione del manifesto di Carlo Calenda, al di là del rapporto che esso potrà avere con una realistica gestione politica) ci resta solo l’ansia di raccomandare che la soluzione sia regolata da un principio davvero non eludibile e tecnicamente delicato: non banalizzare il messaggio e al tempo stesso tenerlo nei confini di una larga comprensibilità. Sapendo che ancora per una parte ampia dell’elettorato non solo italiano ma di tutta Europa la condizione di conflitto, di rancore, di aggressività non è dissipata, anche se il modello di reazione collettiva di casi come quello recente di Milano sta generando un incoraggiamento importante.

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