Partiamo da una premessa: in un articolo pubblicato dal Corriere.it, Beppe Savergnini scrive del recente caso che ha colpito l’onorevole Sarti e che riguarda alcune sue foto intime, finite sul web. «Al di là della morale e del diritto penale» è il parere del giornalista «una cosa è certa: quelle fotografie esistono. E non sarebbero dovute esistere». Le ragioni? Semplicissime: «Non c’è solo il rischio del “revenge porn”, che pure esiste: quante coppie un tempo affettuose si strappano la pelle per questioni di soldi, s’insultano, si odiano? Pensare “A me non accadrà mai!” non è solo grave: è infantile». E, quindi, arriva la sentenza, lapidaria: «Certe fotografie non si scattano: punto».
Lascio alla lettura dell’articolo integrale le valutazioni su di esso. In questa sede, invece, mi limiterò ad osservare alcuni aspetti per i quali le idee di Savergnini presentano i caratteri non solo del moralismo bacchettone, ma anche dell’utopia. Perché? Ormai la rete fa parte delle nostre vite, con tutte le sue diramazioni nella quotidianità. Io potrei benissimo obbedire alla norma indicata dal giornalista del Corriere, norma che in una sola parola potrebbe essere sintetizzata con “divieto“. Ma basterebbe una distrazione, una qualsiasi – lasciare la finestra del bagno aperta, inavvertitamente, o lasciarsi andare in effusioni mentre pensiamo di non essere visti da nessuno – per finire prima sotto l’occhio di un telefonino e quindi sui social. Il problema, insomma, resta lì.
Ancora, è storicamente accertato che il proibizionismo non solo non risolve il problema, ma in un certo qual modo lo alimenta. Il gusto del “proibito”, se vogliamo, favorisce il consumo, crea un mercato. Il discorso, va da sé, è molto ampio e necessita di ulteriori approfondimenti e non è questa la sede adatta. Ma una cosa sembra abbastanza ovvia, nella sua banalità: non è vietando usi e abitudini che quegli stessi smettono di esistere. Forse bisognerebbe agire su altri piani, come ad esempio la consapevolezza, il rispetto della persona nella sua piena integrità – fisica e psicologica – e via discorrendo.
Inviare foto intime, più o meno osé (per non dire palesemente pornografiche) rientra ormai in un costume largamente diffuso nell’agito della nostra sessualità. Certo, c’è il rischio che finiscano in mani sbagliate. Ma questo rischio – ovvero: finire nelle mani sbagliate – lo corriamo in altri contesti tutte le volte che accettiamo l’invito al pub di uno sconosciuto incontrato in rete, o anche off line. Nel momento in cui accettiamo di esporre la nostra corporeità, in qualunque sua forma, dal prodotto virtuale all’incontro concreto, ci esponiamo a un ventaglio di conseguenze, dalle più piacevoli alle più pericolose.
Un tempo fare sesso prima del matrimonio esponeva la donna al rischio di gravidanze indesiderate, alla riprovazione morale, alle nozze riparatrici. Anche in quel caso, sarebbe bastato che lei – divieto che a ben guardare non si estendeva nelle stesse dimensioni a lui – avesse evitato e il problema non sarebbe mai sorto. Ma questo approccio non risolve il problema. E cioè: il sesso, in tutte le sue forme, fa parte della nostra umanità più profonda. E non dovrebbe essere mai usato come strumento di colpevolizzazione e di punizione.
Dietro le parole di Savergnini sembra nascondersi un approccio che sembra più voler obbedire al rispetto delle apparenze, al pubblico decoro, che non al rispetto della persona. “Certe cose non si fanno” non funziona, per il semplice fatto che “nonostante tutto, le persone certe cose le fanno, eccome”. E tutto questo viene offerto all’opinione pubblica di un paese, il nostro, in cui lo stupro fino a pochi anni fa era reato contro la morale e non contro la vittima. Possibile che non si capisca, nel 2019, che certe pratiche colpiscono l’individuo, prima ancora che le buone maniere a cui dovrebbe sottostare una comunità?
Il revenge porn colpisce l’individuo nella sua integrità fisica e morale, nel suo benessere psicologico e andrebbe bollato per quello che è: una violenza sessuale. È violenza fisica, perché usa la nostra nudità, il nostro corpo per screditarci, per creare odio sociale – e conseguente riprovazione a tutto campo – attorno a noi. È violenza psicologica, perché ha conseguenze sul nostro benessere, sull’immagine che viene proiettata di noi e data in pasto al pubblico. Chi lo usa come strumento di colpevolizzazione e di punizione non è poi molto diverso da chi commette uno stupro. Me lo faceva notare – e sposo in pieno questa lettura – la mia amica Caterina Coppola, la direttrice di Gaypost.it, proprio durante una discussione sul caso Sarti. Forse, come tale, andrebbe punito.
E Beppe Severgnini dovrebbe capire che certi ragionamenti non solo sono poco utili, ma rischiano di alimentare lo stigma: secondo questa logica, se baciassi in pubblico il mio compagno e mi picchiassero per tale motivo, sarebbe colpa mia che avrei potuto evitare. La stessa cosa – “avrebbero potuto evitare” – si dice di quelle ragazze che hanno la gonna troppo corta, a ben vedere. E la casistica, purtroppo, non finisce certo qui. Quando invece bisognerebbe agire sul problema, disinnescandolo. E il problema è l’irrisolto della nostra cultura con la sessualità. La colpevolizzazione lasciamola al passato, definitivamente.