La Cassazione ha posto la parola fine alla telenovela giudiziaria che ha visto, suo malgrado, protagonista l’ex senatore del PD e ex Sindaco di Roma Ignazio Marino: innocente. Marino, appreso della pronuncia a lui favorevole, ha scritto di provare sollievo ma di non poter essere allegro, pensando a tutti quelli che hanno sofferto con lui, e per lui, in questi anni. È una reazione pacata, che non ci si aspetterebbe da chi ha provato, con tempo, denaro e fatica, di non aver commesso gli illeciti a lui contestati circa gli ormai famosi scontrini, dopo la condanna a due anni di reclusione avuta nel gennaio del 2018 dalla Corte d’appello di Roma per peculato e falso in merito alla vicenda delle 52 cene per 12.700 euro pagate a spese del Campidoglio. All’epoca della crocefissione del “Marziano” in molti si abbarbicarono su pulpiti improvvisati, moderni Savonarola e stentorei Machiavelli, pronti a sbandierare lucente purezza o indignazione e a liberarsi di un personaggio che molti, nel mondo della politica tradizionale, avevano palesemente sullo stomaco. Ecco, la decisione della Cassazione, con la sua verità giudiziaria, mette in risalto il fatto che in una democrazia matura, o che si presenti come tale, alcuni capisaldi e principi generali vanno sempre tenuti presenti, soprattutto da parte di chi ricopre posizioni di responsabilità pubblica, nelle Istituzioni come nell’informazione. È cosa buona e giusta tenere sempre a mente, ad esempio, che per la nostra Costituzione un cittadino è da presumersi innocente fino al terzo grado di giudizio (“L’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva”, recita l’articolo 27 della Carta) e che il garantismo non funziona se viene applicato a corrente alternata. Sarebbe, dunque, salutare abitudine sospendere ogni giudizio sino alla conclusione del procedimento cui la persona è sottoposta, ricordando che sono in gioco le vite delle persone. Sconfinando dal campo del diritto, soccorre anche il comune buon senso. Foss’anche per puro istinto di conservazione, la prudenza esigerebbe di andarci molto cauti nelle crociate, non solo perché la presunta colpevolezza dell’infedele di turno è tutta da provare, ma soprattutto perché, come qualcuno ha fatto correttamente fatto notare, “a fare a gara a fare i puri, troverai sempre uno più puro che ti epura”. Cautela, quindi, a partire lancia in resta: si corre il rischio di trovarsi catapultati a terra fra la polvere e di rialzarsi, se ci si riesce, soli soletti. La ruota del destino gira, insomma. Tuttavia, l’aspetto forse più eclatante rispetto alla vicenda che riguarda Ignazio Marino è quella relativa alla defenestrazione magno cum sigillo cui venne sottoposto il Sindaco di Roma in carica. Come noto, infatti, nell’ottobre 2015 il Partito democratico ne causò le “spintanee” dimissioni facendo depositare a 26 consiglieri nelle mani di un notaio la volontà di rinunciare allo scranno di Palazzo Senatorio. Le 23 coltellate a Giulio Cesare furono una passeggiata di salute, al confronto. La Consiliatura veniva, quindi, interrotta nel suo naturale decorso per fattori tutti esogeni e il Sindaco della Capitale d’Italia, direttamente eletto dai cittadini, veniva rispedito a casa, insalutato ospite. Non si tratta, è bene chiarirlo, di voler entrare nelle valutazioni strettamente politiche di chicchessia e neppure, va aggiunto, di schierarsi pro o contro il Marino Sindaco, la cui azione quotidiana era ed è liberamente e legittimamente criticabile, dentro e fuori il partito. Anzi, dentro e fuori la politica. Veniva rimproverato all’allegro chirurgo, ad esempio, di non essersi accorto di Mafia Capitale e di non saper gestire le dinamiche politiche e capitoline, mentre, a leggere i giornali, la sua estraneità a taluni circoli veniva percepita come una concreta minaccia dai maneggioni cittadini. La discussione è aperta: ci si accomodi. Il punto che pare però sfuggire a tanti protagonisti della vicenda di allora (sembra passato un secolo!), militanti in tutte le forze politiche e protagonisti dell’informazione, è che il giudizio sull’operato di chi guida una città, perdipiù la Capitale di una delle nazioni più importanti al mondo, non spetta al partito di provenienza o alla maggioranza che lo sostiene. Non spetta ad un Segretario di partito o ad un caminetto di saggi. Non spetta neppure alla piazza che protesta e che porta le arance. Spetta in via esclusiva ai cittadini che lo hanno eletto direttamente e che al termine del mandato, fattasi un’opinione sull’operato dell’amministrazione cittadina, voteranno di conseguenza: è la democrazia, bellezza! Non vale per l’ex Ignazio Marino: annotare questi pochi, banali principi vale come cassetta degli attrezzi per una conduzione non tossica della cosa pubblica. Daje, no?
11 Aprile 2019