L’uomo lupo
Homo homini lupus, si dice. L’uomo ha in sé un innato istinto di sopraffazione verso il suo prossimo.
Come spiega nel suo libro del 2009 “La psicologia del male” il dott. Piero Bocchiaro, psicologo e research fellow alla Vrije Universiteit di Amsterdam, dove coordina un progetto di ricerca sulla disobbedienza all’autorità, la malvagità non è appannaggio esclusivo di individui deviati o pazzi.
Chiunque può infierire contro gli altri, perché questi magari erano gli ordini o semplicemente perché ne ha avuto l’occasione.
La dicotomia “Bene contro Male” è comoda, rassicurante, perché permette di distinguere molto bene dove stiano i buoni e dove i cattivi. Una simile dicotomia, inoltre, porta notevoli benefici ai reggitori del sistema, che possono così alleggerirsi da ogni possibile responsabilità per aver creato i presupposti all’attuazione del male (“Il male esiste da sé, quindi non posso aver contribuito alla sua diffusione”, direbbe il politico incapace).
In realtà, come spiegano i più recenti studi in materia, non esistono individui totalmente virtuosi, altruisti, sensibili e altri interamente disonesti e egoisti. Come esseri umani siamo un po’ tutto questo, anche se la routine quotidiana ci impedisce di prenderne atto perché ci osserviamo nei soliti contesti, sempre uguali. E di fronte a fatti efferati da parte di persone da cui non ce lo aspetteremmo siamo magari portati a pensare: “Era una così brava persona, strano”.
Diventa invece impossibile pronosticare ciò che sarà di noi e degli altri quando le dinamiche situazionali si rimescolano in modo da creare condizioni nuove e impreviste.
Come ha spiegato ancora il dott. Piero Bocchiaro, sembra che quando noi esseri umani ci ritroviamo in contesti insoliti ed estremi diventiamo particolarmente vulnerabili al potere delle forze presenti nella situazione, al punto che tali forze prendono il sopravvento orientandoci verso condotte inimmaginabili sulla base delle abituali caratteristiche di personalità.
All’interno di ciascun individuo esiste dunque un potenziale di crudeltà – in qualche caso anche abbondante – che aspetta di emergere non appena si presenta l’occasione giusta.
Le conferme sperimentali
L’esperimento di Milgram fu un esperimento di psicologia sociale condotto nel 1961 dallo psicologo statunitense Stanley Milgram con l’obiettivo di studiare il comportamento di soggetti sottoposti ad un’autorità (i ricercatori) che ordinava di eseguire azioni in conflitto con i valori etici e morali comunemente accettati.
L’esperimento cominciò tre mesi dopo l’inizio del processo a Gerusalemme contro il criminale di guerra nazista Adolf Eichmann. Milgram concepiva l’esperimento come un tentativo di risposta alla domanda: “È possibile che Eichmann e i suoi milioni di complici stessero semplicemente eseguendo degli ordini?” (un esperimento sulla banalità del male, per usare le parole di Hanna Arendt).
L’esperimento dimostrò uno stupefacente grado di obbedienza all’autorità artificialmente costituita all’interno di quell’ambiente chiuso. Un’obbedienza che indusse alla fine i partecipanti a violare i propri principi morali in maniera violenta, costringendo i ricercatori a interrompere ogni attività anzitempo.
La ragione di tale deriva venne individuata nel fatto che all’interno di quell’ordinamento isolato ed eteronomico, in cui l’autorità legittimava certe condotte, i partecipanti si ritennero esenti da responsabilità in quanto meri esecutori di ordini.
L’esperimento della prigione di Stanford fu un esperimento volto a indagare il comportamento umano in una società in cui gli individui sono definiti soltanto dal gruppo di appartenenza. L’esperimento prevedeva l’assegnazione, ai volontari che accettarono di parteciparvi, dei ruoli di guardie e prigionieri all’interno di un carcere simulato. Fu condotto nel 1971 da un team di ricercatori diretto dal professor Philip Zimbardo della Stanford University. Anche in questo caso gli inattesi risultati ebbero dei risvolti così drammatici e violenti da indurre gli autori dello studio a sospendere la sperimentazione.
Zimbardo riprese alcune idee del sociologo francese Gustav Le Bon (l’autore del famoso “La psicologia delle folle”) ed in particolare la teoria della “deindividuazione”, per la quale gli individui di un gruppo coeso e assembrato indistintamente come una “folla”, tendono a perdere l’identità personale, la consapevolezza e il senso di responsabilità, alimentando la comparsa di impulsi antisociali.
Il male e la politica
Quello che chiamiamo “Male”, inteso come condotta antisociale, prevaricante e, in generale, recante danno al prossimo, è quindi insito nella natura umana.
Le dinamiche sociali o situazionali possono orientare al male abbassando le soglie di inibizione ed i limiti che la strutturazione sociale (che è convenzionale, come ogni costruzione culturale) ha nel tempo posto per auto conservarsi.
In questo quadro alla politica, intesa come governo della convivenza civile, spetta una funzione prettamente conservatrice: quella di assicurare la sopravvivenza pacifica e ordinata della comunità.
Il ruolo della politica, dei politici, delle istituzioni, delle leggi, è proprio quello di contenere e addomesticare la bestia.
Anche per questo l’articolo 54 comma 2 della Costituzione richiede a chi esercita funzioni pubbliche disciplina e onore. La disciplina viene prima non casualmente. Disciplina significa deontologia, rigore, educazione, significa essere d’esempio rispetto alla cosa pubblica ed alla pubblica comunità.
Sempre con l’obiettivo, prepolitico (ossia senza schieramenti), di assicurare la sopravvivenza pacifica e ordinata della comunità.
Se il politico sceglie di liberare la bestia
Quando un politico sceglie, invece, di liberare la bestia, ricorrendo a registri violenti o dimostrandosi lassista e indulgente, se non sottilmente connivente, rispetto a condotte offensive (manifestazioni inneggianti a regimi e dittatori, fatti d’odio, insulti, discriminazioni etniche o di genere, episodi di violenza, etc.), sceglie di abdicare a quella funzione prepolitica.
Il risultato è molto più grave di quello che in un primo momento potrebbe apparire. La liberazione della bestia da parte di un uomo delle istituzioni, infatti, finisce col fiaccare quelle stesse istituzioni: mina l’ordine sociale e mette a rischio la pacifica convivenza.
Abbassare l’asticella della tolleranza, magari trincerandosi dietro l’alibi furbo della libertà d’espressione (che non è affatto illimitata), porta alla lunga ad un indebolimento generale del tessuto sociale.
L’espansione delle condotte offensive verso il prossimo (siano esse apologetiche, verbali, psicologiche, discriminatorie o materiali) comporta infatti un calo drastico della fiducia sistemica, che è ciò su cui ogni forma di convivenza si regge.
Liberare la bestia – la Storia insegna – porta alla vittoria a furor di Popolo, perché, come ci diceva Gustav Le Bon, “Si dominano più facilmente i popoli eccitandone le passioni che occupandosi dei loro interessi”. Ma una volta liberata definitivamente, poi la bestia non è così facile da essere domata.
Con Trump sono aumentati i fatti di violenza
Prima della sprezzante verbosità, delle subdole strizzate d’occhio e delle indulgenti prese di posizione del nostro Ministro dell’Interno (che dell’ordine sociale dovrebbe essere il primo difensore, quale che sia la minaccia), ha esordito sul medesimo palcoscenico Donald Trump.
Trump ha fatto della provocazione aspra, della denigrazione dell’avversario politico e dell’incitamento all’odio ed alla violenza (in una parola, di quello che una volta avremmo chiamato “politicamente scorretto”, se non peggio) un registro comunicativo costante fin dalla campagna elettorale.
Ricordate quando, ad esempio, disse: “Hillary Clinton non vuole le armi? Togliamo le armi alle sue guardie del corpo e vediamo che le succede”.
Ricordate i continui attacchi alla stampa? Attacchi che hanno portato l’ONU a paventare il pericolo di episodi di violenza contro i giornalisti.
Per istigazione alla violenza Trump è stato persino indagato in North Carolina.
Ebbene, c’è una relazione tra i discorsi politici – aggressivi, populisti, complottisti – e gli atti violenti, i reati d’odio che compaiono nelle cronache di mezzo mondo? Se lo è chiesto Il Foglio, citando Richard A. Friedman, docente di Psichiatria clinica alla Weill Cornell Medicine e ce lo chiediamo noi tutti ogni giorno.
Se lo stanno chiedendo naturalmente anche negli Stati Uniti.
Il 17 marzo il New York Times, ricordando quando Trump incoraggiò gli agenti di polizia a sbattere le teste dei sospettati contro i tetti delle auto, quando suggerì ai suoi sostenitori di prendere a calci i disturbatori ai suoi comizi, quando, durante una manifestazione poco prima delle elezioni, rivolse simili incitamenti ai “Bikers for Trump” ed ai militari, ha fatto notare che non possono esservi molti dubbi a riguardo.
Di recente sono arrivati anche i primi dati.
Il 22 marzo il Washington Post (il giornale conservatore che smascherò lo scandalo del Watergate) ha diffuso i dati relativi ad un aumento del 226% dei cimini d’odio nelle contee che hanno ospitato un comizio di Trump nel 2016.
Una cosa è certa: l’indulgenza verso la bestia che è in noi, la condanna a corrente alternata o a senso unico (ossia verso un certo genere di episodi soltanto), la sottile connivenza verso manifestazioni d’odio o di offesa (ancorché solo apologetiche o verbali) e lo stesso ricorso a espressioni denigratorie, di disprezzo e violente (l’hate speech politico), se provengono da chi incarna le istituzioni, fiaccano la capacità dissuasiva della sanzione (morale e giuridica), indeboliscono le istituzioni, intaccano il sentimento di fiducia reciproca fra gli individui e dischiudono a poco a poco il vaso di Pandora preparando il terreno a condotte ben più gravi.
Ogni causa produce un effetto e ogni azione ha una conseguenza.
E, come diceva ancora Gustav le Bon, scusare il male significa moltiplicarlo.