Sono tre gli aspetti che vorrei sottolineare delle conclusioni del primo giorno del Consiglio europeo.
Primo: non c’è accordo sulle nomine. In teoria, per quanto riguarda i capi di Stato e di governo, queste dovrebbero limitarsi alla presidenza della Commissione e del Consiglio; in pratica, invece, tentano di includere nel pacchetto anche quella della BCE e addirittura la presidenza del Parlamento. Si conferma quindi che, se l’unico modo (o quello prevalente) di decisione nella UE è quello dell’accordo unanime fra i governi e del puro gioco dei rapporti di forza fra loro, non si arriva a nessuna decisione, se non dopo drammatici tira e molla e sempre (o quasi) sulla base di un minimo comune denominatore senza ambizione. Peraltro, è sorprendente che i capi di Stato e di governo non sembrino per nulla considerare che, qualsiasi cosa facciano, il o la candidata dovrà ricevere l’appoggio della maggioranza qualificata del Parlamento; certo, se si continua a fingere che quest’organo non esista, non sarà per nulla facile. Vedremo che succederà da qui al 30 giugno: mi pare evidente che, se i governi pensano di fare ingoiare al PE una loro scelta tirata fuori dal cappello all’ultimo minuto, credo saranno delusi.
Secondo: l’impasse sulle nomine è anche la conseguenza di un funzionamento insoddisfacente del processo dei “candidati capolista” (Spitzenkandidaten), ossia della nomina da parte dei partiti europei di candidati alla presidenza della Commissione. Il candidato del partito che ha ottenuto più voti, il popolare Manfred Weber, al di là dei suoi meriti o demeriti e della sua immagine opaca, è indebolito dal fatto di essere il frutto di un accordo fatto a tavolino tra i partiti nazionali membri del Partito Popolare Europeo e non di una vera competizione europea; questo rende anche più difficile l’operazione auspicata da alcuni, e resa in teoria possibile dai numeri, di trovare in Parlamento una maggioranza pro-europea “progressista”.
Noi Verdi abbiamo cercato sia nel metodo di decisione che nello svolgimento della campagna di dare ai nostri due candidati capolista, Ska Keller e Bas Eickhout, una dimensione genuinamente transeuropea, certo non semplice, perché le elezioni europee si giocano ancora sulle regole di 28 elezioni nazionali. Questa situazione è sicuramente una conseguenza della decisione miope (in primis del partito di Manfred Weber) di affossare la possibilità che almeno parte dei deputati fossero eletti sulla base di liste transnazionali capitanate dai candidati alla presidenza della Commissione: ciò avrebbe dato forza e democrazia alla scelta del capo dell’esecutivo UE e avrebbe posto i capi di Stato davanti alla inevitabile realtà di non essere più i “padroni” delle decisioni europee.
Terzo, l’inclusione a mio modo di vedere abusiva del tema del cambiamento climatico tra i punti da decidere all’unanimità, invece che con un voto a maggioranza, ha determinato il fatto che la UE si presenterà ai difficili e cruciali negoziati sul clima di settembre e di fine anno ostacolata da divisioni interne. Dovrà inoltre affrontare la furiosa discussione su chi deve pagare e chi ricevere nel processo dell’inevitabile transizione verso una riduzione a zero delle emissioni climalteranti nei prossimi decenni. Certo, non era scontato che “una larga maggioranza” di Stati si sarebbe dichiarata favorevole a realizzare questo obiettivo entro il 2050. Ma il fatto è che, ancora una volta, il piombo dei veti e dell’obbligo del consenso tarpa le ali alla UE anche in un tema sul quale siamo già in grande ritardo: infatti se rimanessimo dove siamo in termini di target obbligatori di riduzione di emissioni, di aumento delle rinnovabili ed efficienza energetica, di ritmo di riduzione della nostra dipendenza dai combustibili fossili e di sfruttamento delle risorse, di denaro dedicato alla transizione, ci ritroveremmo con un aumento della temperatura di oltre 3 gradi, cosa che, come ormai ci urlano dalle piazze sempre più giovani e meno giovani, significherebbe rendere parti importanti del pianeta inabitabili entro pochi decenni.
Di fronte a questa sfida alla nostra stessa sopravvivenza, questi conciliaboli tra i governi e la ricerca affannosa di un candidato o candidata orientata più a rispondere alle preoccupazioni e ambizioni nazionali invece che non a scegliere il/la migliore in termini di visione e leadership, ci danno una disperante immagine di inadeguatezza.
Il nuovo Parlamento europeo deve invece porsi come il vero rappresentante degli interessi di europee ed europei ed entrare nel merito delle priorità del nuovo o della nuova presidente rifiutando di sostenere non solo chi non abbia partecipato alla campagna elettorale e chi non sia individuabile per impegno e competenza come un leader europeo, ma anche chi non sia disposto a portare la Commissione all’avanguardia della battaglia contro il clima impazzito.