Oggi faccio qualcosa che non ho mai fatto: scrivo su Linkiesta in un giorno che non sia il venerdì, scrivo collegandomi a una notizia dell’ultima ora (quelli fighi direbbero newsjacking o qualcosa del genere), faccio un nome e un cognome (spoiler: Alessandro Proto). Per il resto, diciamolo subito per non creare troppe aspettative, parlo di una storia vista e rivista in questi ultimi anni e in questi “primi” anni della società digitale.
Il che è esattamente il punto del discorso: concetto banale, errore clamoroso, perdite ingenti.
Propedeutica: di chi parlo, perché ne parlo e che c’entra con LinkedIn
Stamattina un mio amico e contatto su LinkedIn mi ha girato un link con scritto “ops…”
Prim’ancora che potessi scoprirlo autonomamente dalla lettura dei quotidiani e da una sbirciatina sui social, vengo avvisato che Alessandro Proto è stato arrestato per truffa. “Sottratti 130mila euro a malata di cancro promettendole cure” è uno dei titoli ricorrenti dei quotidiani: dal Fatto Quotidiano sino al Corriere della Sera, Repubblica e il Gazzettino de noatri.
Vicenda che, per chi fosse venuto oggi da Marte, era stata sollevata da un servizio delle Iene – il che ci catapulterebbe dentro un dibattito su come funzionano tante cose in Italia… ma non è questo il punto.
Il punto è che questa persona era già nota. Tanto alla giustizia (già arrestato nel 2013, accusato di manipolazione del mercato e ostacolo all’attività degli organi di vigilanza), tanto ai social.
Negli ultimi anni infatti, Proto, ha avviato un’abile attività comunicativa sui social. Una strategia fatta da: grandi promesse + grandi stronzate.
Per intenderci, solo ieri, dal suo profilo Instagram, aveva pubblicato un video dal titolo: “Come speculare oggi” in cui dava consigli sugli investimenti da fare in borsa e prometteva: “Da oggi iniziamo a distribuire i primi dividendi degli investimenti fatti con noi nelle scorse settimane”.
È su LinkedIn però che ha dato il meglio (peggio) di sé, anche in termini numerici e cioè di quante persone è riuscito a raggiungere. E, purtroppo, è anche su LinkedIn che stando al servizio delle Iene e agli inquirenti, che ha conosciuto una donna, malata di cancro, ed è arrivato a spillarle circa 130 mila euro.
Ma, prima di questo, si è reso anche protagonista di tutta una serie di promesse e provocazioni che potrebbero (uso il condizionale non avendone prova) essere costate qualcosa a molte persone.
Annunci di ricerca personale formulati in termini bizzarri, machisti e medievali (tipo ragazza che al curriculum deve presentarsi con un elastico al polso), compensi paventati di oltre cinque mila euro più superbi benefit aziendali.
Oppure, saltando indietro di un anno, quando si presentò alla popolazione di LinkedIn annunciando di aver costituito la LinkedIn Spa, una società per azioni dove chiunque potrà acquistare una sola azione ed entrare a fare parte di una società innovativa a livello mondiale.
Osvaldo Danzi raccontò in modo puntuale la vicenda. Per i curiosi e per chi vuole perdere la fiducia nella definizione di “l’uomo si distingue dagli animali per l’uso della ragione”… ecco il link.
Ad ogni modo, sintetizzando perché di vicende ce ne sono davvero troppe, il punto è che sotto ogni delirio social, e su LinkedIn, Proto ha sempre avuto un larghissimo seguito. Manger (scritto proprio così), Ceo di se stessi, studenti della scuola della strada, ma anche tantissime, tantissime, tantissime, persone in cerca di un lavoro, o persone (dipendenti, anche in ruoli chiave) di grandi società.
Reputazione, percezione e altri disastri
Non è mia intenzione sparare sopra Proto. Non è mia abitudine e penso porti anche poco. Quello che invece ho sempre trovato inquietante e pericoloso, è il fatto di come la propria vita si intrecci con quella degli altri, spesso estranei, spesso dei quali, quando entriamo in contatto tramite pixel digitali, non sappiamo nulla.
Primo problema: cosa succede a chi si mostra vicino, sostenitore di un personaggio come Proto?
Ho l’abitudine di pulire il feed dai contenuti di persone che fanno più rumore che valore. Con Proto, invece non l’ho mai fatto. Sono stato un suo follower e mi è stato prezioso: vedendo chi metteva un like e chi commentava, avevo la possibilità di capire il livello di pensiero (e di ragione) e prenderne le misure.
Esempio brutto: se un’azienda mi contattava per potere lavorare con me e il CEO era uno di quelli che si proponeva a Proto come collaboratore e partner, declinavo gentilmente. La mia idea (ripeto, brutta) era che: è un’azienda gestita da un coglione. Oppure, è un’azienda che non sa proprio come stare in piedi (vedi punto successivo).
Idem credo succeda nel caso in cui gli strenui sostenitori fossero persone in cerca di lavoro. Quale società assumerebbe una persona che si dice disposta a tutto per lavorare con lui o che plaude al fatto della ragazza che al colloquio deve andare con un elastico al polso per fare vedere di essere disposta a tutto – e il tutto, inutile nascondersi, è quello?
Il tutto da leggere con l’aggravante del tempo in cui viviamo: una società di informazioni. Bastava mettere nome e cognome su Google per sapere che manipolazione e altre cazzate fossero il mood comunicativo di questo individuo. E questo, senza voler appiccicare lettere scarlatte e offrendo a tutti capacità di redenzione, avrebbe dovuto alzare le soglie di attenzione.
Dunque, dopo la notizia di oggi, che data la risonanza e la drammaticità del fatto, dovrebbe mettere almeno mediaticamente la parola fine alla triste comunicazione di Proto, cosa succede a chi ne è stato sostenitore? E a chi ne è stato sostenitore anche solo per quel principio, barbaro a obsoleto, del “purché se ne parli?”
Solo nell’ultimo anno: un libro, diversi inviti ad eventi in qualità di relatore e testimonial sulla comunicazione – purtroppo anche organizzati da persone che stimo/stimavo.
La domanda, per addetti ai lavori e non, è dunque: quanto vale un balzo momentaneo per poi precipitare? Quanto costa?
Vedremo e non so nemmeno rispondere perché non è il mio campo. Quel che so è che, quando si tratta di persone, la tua percezione, il tuo valore, la capacità di creare relazioni positive e con persone di valore, è data non solo dal tuo valore ma anche e soprattutto dalla capacità di stare distante da chi è rumore. Il vantaggio competitivo, direbbe Battiato, è non farsi tirare giù.
Le competenze si integrano, l’integrità non si compensa.
Nel titoletto sopra, una cosa che ripete spesso Matteo Fusco, Ceo di Beople, con il quale ultimamente ho la fortuna di confrontarmi spesso. Corrisponde a vero. Ovunque.
Pensiamo ai brand. Non mi dilungo perché gli addetti ai lavori ne sanno abbastanza e per gli altri sarebbe troppo lungo da spiegare. In sostanza però, oggi, possono perdonarti disservizi e anche qualche euro in più per la concorrenza ma non scivoloni valoriali.
Aziende, imprenditori e persone che lo comprendono possono trovare in questa tendenza un’occasione d’oro. È come, ed è una cosa bellissima, se essere buoni (o almeno provarci) fosse finalmente ricompensato anche economicamente – pensiamo a Nike in occasione delle vicende legate a Colin Kaepernick, ma anche ad altre come Airnb e la presa di posizione contro l’omofobia.
Versante negativo: pensiamo alla questione Rider, alle condizioni di lavoro in Amazon, ai boomerang di Pandora… Oppure, basti pensare alla situazione creatasi dopo lo scandalo legato a Lance Armstrong, sino a quel momento modello positivo.
O, ancora, pensiamo a Kevin Spacey fatto fuori da “La Casa di Carta” (e non solo) – riprova che le competenze si integrano ma l’integrità non si compensa.
I due fattori determinanti, uno pesa più di un altro.
Questa storia mi pare si possa sintetizzare in due fattori, uno pesa molto più di un altro: competenze e responsabilità individuale.
La competenza del ventunesimo secolo, la competenza richiesta in un mondo digitale, non riguarda il digitale. Riguarda sapersi muovere in un mondo digitale.
Non riguarda saper fare le slide, l’eloquenza in 180 caratteri o 280, l’editing delle foto o la conoscenza del html.
Il secondo fattore, discendente dal primo e determinante di tutto, riguarda invece le responsabilità. Individuali.
Leggevo prima un commento sulla vicenda, nel quale si analizzava perché LinkedIn non abbia bloccato una persona chiaramente “equivoca” e in merito alla quale aveva ricevuto diverse segnalazioni.
È un’osservazione che non fa una piega. Continuando il ragionamento fatto prima, LinkedIn non esce affatto bene.
L’altro giorno un manager mi ha detto “Vado su LinkedIn per informarmi, perché so che è un ambiente professionale e in cui non girano cazzate”. Oddio, mica tanto.
Adesso pensiamo anche a Facebook e altri player e alla battaglia contro fake news e messaggi incitanti la violenza e il rapporto con gli inserzionisti, e con gli utenti. O al discorso privacy e Facebook.
Questione complessa. Il rischio è però risolverla con “LinkedIn fa schifo, Facebook fa schifo”. Che poi, non è altro che “piove, governo ladro.”
Il grande snodo però è passare dall’aspettarsi un mondo giusto al fare qualcosa. Il punto, il secondo fattore, che pesa come un macigno e conta molto più del primo, delle competenze, è l’assunzione di responsabilità individuale.
Come dice Sebastiano Zanolli, che non perde occasione per parlarne, “non mancano le informazioni, è la storia che ci raccontiamo che è debole”.
E la storia, dice che intorno a te non sempre ci sono persone che vogliono il tuo bene, né controllori attenti. Dice che spetta a te, principalmente a te, costruire il tuo mondo.
La dipendenza dall’ambito, la grande sfida
La vera sfida però è comprendere che riguarda tutto e tutti; in un mondo connesso non potrebbe essere altrimenti.
Ne parlavo l’altro giorno e l’altro ancora, con manager di aziende di dimensioni diverse. Entrambi comprendevano il discorso (più o meno quanto scritto sino ad ora in questo post) ma entrambi lo riconoscevano valido sono in un certo ambito.
La dipendenza dall’ambito è quell’umana tendenza per cui alcuni comprendono un’idea in un certo settore, per esempio sui libri, ma non la riconoscono in un altro, come in un contesto aziendale e lavorativo. Oppure la ritengono valida in una dimensione aziendale ma non individuale e viceversa.
Nassim Taleb, in Antifragile, lo spiegò molto meglio di me con un semplice aneddoto.
Un tizio che aveva l’aspetto di un banchiere si faceva portare il bagaglio da un facchino in uniforme (mi bastano minimi indizi per riconoscere all’istante un certo tipo di banchiere al quale sono fisicamente allergico, al punto che mi provoca crisi respiratorie). Circa quindici minuti dopo ho ritrovato lo stesso banchiere in palestra, mentre cercava di riprodurre l’esercizio fisico naturale sollevando pesi, con kettlebell usati come se fossero valigie da far dondolare. La dipendenza dall’ambito è dilagante.
E la dipendenza dall’ambito è pericolosa. Sempre i due manager dei quali parlavo prima mi hanno detto: “eh certamente, ma noi siamo una piccola azienda. Abbiamo appena due persone”, in un caso, “eh certamente, ma noi siamo una grande azienda. Abbiamo migliaia di persone”, nell’altro caso.
Ecco, il punto è comprendere che riguarda sempre Te. Che tu sia solo, che tu sia al comando di milioni di persone.
Se vuoi bene alle tue persone, pensaci.
Se vuoi bene a te stesso, ricordalo.