La scorsa settimana un’importante delegazione di autorità giudiziarie keniote ha visitato l’Italia. Era guidata da Noordin Haji, Director of Public Prosecutions (DPP), un ruolo presente nei Paesi del Commonwealth e non nel nostro ordinamento: il titolo indica l’autorità che sovrintende a tutte le indagini criminali della nazione, con un ampio margine di autonomia rispetto al potere esecutivo e a quello legislativo. Con Haji c’erano anche il capo della polizia George Kinoti e alcuni dei loro principali collaboratori.
I lavori con le autorità italiane, cioè la Procura di Roma e la Direzione Nazionale Antimafia e Antiterrorismo, sono durati due giorni – 11 e 12 luglio – e la loro agenda, così come proposta da Nairobi, ha incluso due punti principali: richiesta di rogatoria internazionale inerente il caso di supposta corruzione messa in atto in Kenya dalla società italiana CMC di Ravenna; richiesta di collaborazione nelle investigazioni relative al rapimento di Silvia Costanza Romano.
Chi scrive ha preso parte all’introduzione ai lavori. E può confermare che questi sono stati i punti trattati e che la delegazione keniota ha dato prova di forte volontà di collaborazione e di grande competenza professionale.
Detto questo, è filologicamente interessante, nel metodo e nel merito, il modo in cui la notizia è stata ripresa dalla grande stampa italiana. Partendo dal metodo, tutti hanno in sostanza copiato e incollato un testo identico, anche quando gli articoli non risultano d’agenzia ma sono firmati, con la sola eccezione di due testate, il Fatto Quotidiano e La Verità, che sono andate oltre per approfondire il tema facendo appello alle loro ricerche e alle loro fonti. Sappiamo che, in redazioni ridotte all’osso, il tempo e le competenze per investigare davvero sono sempre più limitati. Tuttavia colpiscono due mancate risposte a due domande fondamentali. La prima è: perché dal 20 novembre 2018 (giorno del rapimento di Silvia Romano) a oggi non c’è mai stato un vertice costruttivo come quello dei giorni scorsi, richiesto peraltro dalle autorità keniote e non da quelle italiane? La seconda recita: perché nessuno dei giornali ha parlato del grave scandalo in corso in Kenya che coinvolge la cooperativa “rossa” CMC e molti addirittura non ne hanno nemmeno citato il nome, alludendo semplicemente a «un’azienda italiana»?
I due argomenti sono di peso ben diverso, ne siamo consapevoli: un caso di “ordinaria corruzione internazionale” è scandaloso, ma infinitamente meno grave del dramma in cui è in gioco la vita di una giovane donna di 23 anni. Entrambi tuttavia rimandano, nella loro gestione, ai vizi più radicati nel nostro sistema di potere (o di poteri) e alla scarsissima conoscenza di un continente che oggi è socialmente, politicamente ed economicamente cruciale come l’Africa.
La gestione del caso di Silvia Romano è marcata dalle incertezze e dall’inesperienza dell’attuale esecutivo. Lo scorso gennaio, quando chi scrive, in qualità di segretario generale di Avocats sans Frontières, visitò per la prima volta Noordin Haji nel suo ufficio di Nairobi, la Farnesina seppe solo dire «state zitti se potete». Nessun italiano, a eccezione dello scrivente, aveva mai incontrato prima di quel giorno il procuratore Haji, pur se egli rappresenta dal momento della sua nomina, avvenuta nel marzo 2018, la figura chiave del sistema investigativo keniota, oltre a essere persona di cultura internazionale e di grande valore professionale, etico e umano. Perché?
Nel frattempo sono passati otto mesi dalla sparizione di Silvia. Moltissimi. Noi ci auguriamo innanzi tutto che sia viva e in salute. Auspichiamo una forte accelerazione delle sue ricerche all’insegna di una piena cooperazione internazionale, senza riserve. E ci impegniamo, in questo blog e altrove, a sostenere come potremo chi si dedica a questo difficile compito.
Per passare al caso della cooperativa edile ravennate, l’assordante silenzio italiano intorno a questa grave vicenda rimanda invece agli esecutivi precedenti, quelli a gestione PD.
Nessuno o quasi ne parla, ma la storia è pesante: gli appalti vinti da CMC, in associazione con Itinera del gruppo Gavio, ammontano complessivamente a oltre 800 milioni di euro. Le inchieste della magistratura di Nairobi sulle presunte tangenti pagate per ottenerli coinvolgono quattro ministri (Tesoro, Acqua, Turismo e Agricoltura). Un deputato di rilievo, legale rappresentante di uno dei fornitori locali di CMC, è stato arrestato nei giorni scorsi. Tutti i cantieri e i beni della cooperativa sono requisiti dall’autorità giudiziaria. All’indagine keniota se ne aggiunge un’altra, per ragioni simili, in Nepal. E, nonostante gli sforzi profusi per ottenere questi contratti, la cooperativa ravennate ha accumulato 900 milioni di debiti ed è, dallo scorso dicembre, in concordato preventivo.
Eppure l’indifferenza avvolge questo caso. Ci siamo così abituati alla corruzione da non darvi più importanza, poiché «così fan tutti»? O le ragioni sono altre?
Ricordiamo che i tre contratti kenioti di CMC oggetto delle indagini sono stati firmati nel 2014 e 2015, quando era presidente del Consiglio Matteo Renzi, protagonista di un celebre servizio fotografico, tanto famoso quanto inopportuno: visitò infatti nel 2015 il Parlamento di Nairobi, a fianco del presidente Uhuru Kenyatta, dotato di un vistoso giubbotto antiproiettile sotto la giacca. Ricordiamo inoltre, incidentalmente, che il fratello minore di Maria Elena Boschi, Pier Francesco, ha lavorato presso la cooperativa ravennate dal settembre 2014 al settembre 2017. Ricordiamo infine che Lega Coop, di cui CMC fa parte, è da sempre legata al centrosinistra o, per lo meno, considerata tale nell’immaginario collettivo visto che di recente ha preso anche lei le distanze dal PD.
Non parlare dunque di questo grave caso di corruzione potrebbe essere da parte di molti, compresi i giornali più critici verso l’attuale maggioranza, un modo di “tutelare” l’economia di sinistra e i suoi sponsor politici, o ciò che ne resta. Ma si tratta di una scelta da struzzo. Purtroppo questo caso non è il solo in cui il PD e coloro che lo sostengono nascondono la testa nella sabbia per non vedere
La visita di Noordin Haji e della sua delegazione, se letta in questo modo, ci consegna quindi due messaggi che potrebbero essere utili per il futuro se qualcuno volesse mai prenderli in conto. Li sintetizzo in maniera estrema. Primo: è tempo di impegnarsi per conoscere meglio, con maggiore rispetto e umiltà, l’Africa e i suoi leader. Si tratta del luogo e delle persone con cui giocheremo molti dei nostri destini futuri. Secondo: è urgente, per la sinistra in generale e il PD in particolare, abbandonare una volta per tutte i tristi fantasmi del passato prossimo e remoto e tirar fuori la testa dalla sabbia per guardare la realtà negli occhi con coraggio e progettare un futuro veramente nuovo.
Queste due linee di riflessione, tra loro legate più di quanto non sembri, saranno al cuore di questo blog, che ci auguriamo diventi interessante per molti.