Per un moto di inerzia “positiva” e senza il pistolotto di qualche costituzionalista di grido si è assistito al trionfo del Parlamento su cui si erano abbattute due “profezie” di sventura. La prima – febbraio di sei anni fa – instillata dall’oracolo ligure Beppe Grillo secondo cui i Palazzi del potere legislativo sarebbero stati aperti come una scatoletta di tonno
https://www.facebook.com/beppegrillo.it/posts/10151275292116545
La seconda profezia – in stile meno ittico ma comunque solenne – fu di Matteo Renzi che avrebbe ricevuto la fiducia dal Senato per poi chiuderlo con una riforma referendaria.
Sappiamo com’è andata a finire: il Senato è più vivo e determinante che mai e le due Camere hanno ripreso uno smalto inaspettato anche e per merito del premier Conte che ha voluto dare chiarezza di intenti ai rappresentanti della sovranità popolare (anche per scusarsi di tanti errori suoi precedenti…).
L’ulteriore paradosso – non secondario – è che sono proprio Renzi e Grillo oggi ad unirsi in consortio per far nascere – tra tatticismi, opportunismi e immancabili rimpalli – un secondo esecutivo guidato da Conte che si sta rivelando una sorta di allenatore special one per tutte le squadre, uno che a quanto pare è bravo a prescindere dalla squadra.
Nel frattempo la donna di primo lettto – Matteo Salvini – in queste ore si è offerto in modalità sottocosto cinese mettendo sul piatto l’impossibile pu di rimediare al disastro consumatosi nelle proprie mani in ragione di insensati pensieri plebiscitari i cui nessi logici forse non sapremo mai. Con il risultato paradossale che l’unico che non aveva ancora vaticinato contro il Parlamento alla fine viene silurato e triturato dalla carica dei quasi 1000 (cioè i deputati e senatori) i quali di giorno proclamano le urne ma – sussurrano magari di notte – col cavolo che tornano a fare campagna elettorale dopo poco più di un anno di mandato.
Battute a parte, dalla crisi del Conte 1 ne viene fuori una riflessione davvero importante e che va posta a dibattito.
Ho il dovere ineludibile di non precludere l’espressione di volontà maggioritaria del Parlamento come avvenuto del resto anche un anno addietro, nella nascita del governo che si è appena dimesso. Al contempo ho il dovere di richedere nell’interesse del paese decisioni sollecite”
L’epifania del Parlamento si è rivelata in tutta la sua bellezza, perfida e sconvolgente, sostanziale e formale insieme, costituzionale nella sua fissità mutevole (ossimoro voluto). Nel mazzo – infatti – dei fenomeni politici l’asso della Costituzione ha sbaragliato fanti, donne e cavalli se vogliamo stare nella suggestione del gioco della pratica cartomantica. E il rispetto di quel che Conte simul chiama “codice delle regole” – ovvero la Costituzione – ha in qualche modo permesso di capire molti elementi significativi sui processi politici dentro un sistema parlamentare come il nostro.
La crisi dell’esecutivo gialloverde proprio perchè “eplicitata in Parlamento” ha prodotto due cose importanti: da un lato ha dato sfogo al dinamismo dei protagonisti, agli istinti ancestrali e spregiudicati degli altri attori (con un Renzi – geniale baro e stratega occulto e oculato – che nell’ombra smuove la battaglia e le mosse altrui mettendo letteralmente ko Salvini rimasto col mojiito in mano), Di Maio che trova un possibile percorso terapeutico per se stesso e per il suo movimento dal complesso edipico-salviniano che lo ha consunto in 15 mesi di governo. Zingaretti che prova a dare ragionevolezza al sogno di Bersani di normalizzare in senso sinistro-riformista i grillini sposando le istanze dei cinquestelle con quelle di un centrosinistra sull’orlo della crisi di senso.
E dall’altro ha ricondotto tutti i partiti dentro il perimetro della Costituzione così sta facendo ineccepibilmente il presidente Mattarella nonostante le agitazioni isteriche del momento. E la costituzione che sta indicando qual’è lo “spazio” in cui si da forma alla politica, e quali debbano essere i limiti (ossia i confini) sui quali vive la nostra democrazia al netto di chi invoca elezioni seguendo i rutti umorali dell’elettorato e nonostante gli umori della Papeete generation, gli abitanti della Rousseu-Town o gli analisti da tastiera facile. In questi casi penso sempre all’esempio americano: si fanno sondaggi quotidianamente, si valutano tutti gli indici di gradimento continuamente, si critica e si osanna il presidente senza filtri ma non si butta nessuno dalla torre e le elezioni democratiche hanno un timing preciso secondo tempi precisi (le presidenziali e quelle di medio termine per il Congresso). Accade in tutte le democrazie moderne ed è giusto che accada da noi senza questa continua tenzone ad ogni sospiro.
Ebbene, dentro gli spasmi parlamentari in un senso o in un altro, si vedrà la discontinuità rispetto al passato; e se il nuovo governo che verrà saprà dare risposte strutturali ad un paese che proprio di soluzioni sospese, decisioni economico-sociali rimandate è stremato. Vero è che certi matrimoni, manzonianamente parlando, non s’avrebbero da fare e ciò nonostante – come è stato scritto – sperare che il governo non-erotico giallorosso (quello gialloverde è stato troppo hard…) possa poi stupirci in seguito sarà un azzardo ma ci si può provare. In fondo, ci sono amori vulcanici e affetti progressivi: che sia la stessa cosa per l’unione Ma-Zinga?
Ce lo dirà il Parlamento, l’araba fenice che risorge mentre si inceneriscono le coerenze dei protagonisti di questa crisi. Passano le ore, cambiano gli scenari ma almeno teniamoci la resilienza del nostro sistema. Il che non è poco visto la desolazione di queste ore.