Il 13 marzo del 2002, a 800 miglia dalla costa hawaiana, la Insiko 1907, una petroliera non registrata, probabilmente indonesiana, naufraga in seguito a un incendio divampatosi nella sala macchine. Si salvano solo 11 persone. Oltre al cane del comandante, una piccola terrier di nome Hokget.
La nave viene trasportata dalle correnti sino ad avvicinarsi alla costa delle Hawaii. È lì che una nave da crociera li avvista e mette in salvo l’equipaggio.
Mentre la nave da crociera sta prendendo il largo, un passeggero però inizia a notare qualcosa: è un cane. Sì, è un cane che abbia. Disperato.
Oh, no! È Hokget.
La Insiko è ormai troppo lontana, così il passeggero avverte l’organizzazione umanitaria di Honolulu. L’organizzazione in questione è molto attiva, già l’anno prima aveva salvato ben 675 cani abbandonati; ma mai un cane naufrago.
La vicenda inizia a diffondersi, attirando sempre più l’attenzione dell’opinione pubblica. Arrivano lettere e donazioni. Una è di ben 5000 dollari. Per la piccola Hokget.
Iniziano i soccorsi ma il problema è che non si sa dove è finita la Insiko, La guardia costiera statunitense traccia un’area di 360.000 miglia, un’area decisamente troppo vasta. Un’imbarcazione dell’organizzazione umanitaria salpa alla ricerca, un’altra, privata, è incaricata di fare lo stesso, pagata dalla stessa organizzazione ben 48.000 dollari.
Si mobilita persino la Marina Militare statunitense che trova la scusa di “esercitazioni in mare” per evitare polemiche sull’uso dei contributi pubblici.
Si apre una speranza il 9 Aprile, quando l’equipaggio di un peschereccio giapponese avvista qualcosa simile alla Insiko. Due pescatori salgono a bordo, trovano il cane ma questo scappa in direzione della sala macchine. I giapponesi non possono fare altro, l’incendio aveva reso la Insiko troppo pericolosa.
La vicenda ormai è al centro di ogni dibattito, in ogni casa c’è qualcuno che a un tratto della giornata chiede “ma hanno salvato la piccola Hokget?”
Nel frattempo la situazione diventa ancora più complicata: si discute se affondare la nave per non rischiare la dispersione di materiale inquinante. Questo ucciderebbe il cane, però.
Gli USA alla fine decidono per impiegare la Marina Militare affinché la nave venga recuperata, stanziando 250000$ delle tasse dei contribuenti.
Il 26 aprile un rimorchiatore trova la Insiko e Brian Murray, supervisore delle operazioni di salvataggi, recupera Hokget, che si nasconde sotto una pila di pneumatici, terrorizzata ma tutto sommato in buona salute.
Hokget arriva a Honolulu il 2 maggio, salutata da una folla di persone in festa, conferenze e striscioni.
Ma è solo un cane!
Peter Singer anni fa propose un dilemma: se vedessi un bambino annegare in uno stagno e per soccorrerlo rovineresti un paio di scarpe da 200$, salveresti il bambino? Chiunque, ovviamente, risponderebbe di sì. Ma allora, si chiede Singer, perché la stragrande maggioranza delle persone non firmerebbe mai un assegno da 200$ a organismi di carità capaci di salvare bambini sparsi nel Mondo?
In un certo senso è quanto accadde durante la vicenda della piccola Hokget, l’opinione pubblica si divise. Furono molti a fare notare che si trattava solo di un cane. E che nello stesso periodo, nel mondo, migliaia di bambini stavano patendo la fame e morivano.
“Ma è solo un cane!” suggerisce la ragione.
Il punto è che la ragione in questa vicenda non c’entra niente.
Così come non c’entra niente con buona parte delle nostre decisioni.
Paul Slovic, professore di psicologia presso l’Università dell’Oregon e presidente del gruppo Decision Research, una volta fece un esperimento che chiarisce bene come funzioniamo noi umani.
Parlò a un gruppo di volontari di una bambina di 7 anni in Mali che soffriva la fame e aveva bisogno di aiuto. Le persone hanno ascoltato la storia e poi donato una certa somma di denaro.
A un altro gruppo di volontari è stata raccontata la stessa storia, cambiando però il protagonista: non più una bambina ma un ragazzo. Chi ha ascoltato questa versione ha donato sostanzialmente la stessa somma di denaro del gruppo precedente.
Un terzo gruppo di volontari è stato informato che in pericolo di vita c’erano sia un ragazzo sia una ragazza. Le persone stavolta hanno reagito diversamente. Hanno donato meno soldi.
È terribile da dire, pensare e ammettere ma le prove dimostrano che 10 vittime non ci fanno sentire più tristi di una. E che, anzi, una vittima ha solitamente più rilevanza emotiva.
La storia del cane si spiega in questo modo. La piccola Hokget non è stata percepita come una statistica, ma come una cagnolina in difficoltà.
Storie, non statistiche
Quando poi si è iniziato a raccontare che era la cagnolina del comandante, e poi di come un passeggero della nave da crociera si fosse accorto di lei quando era troppo tardi, e poi ancora di quanto fosse stata a un passo dal salvataggio, prima che un incendio mandasse tutto all’aria, Hokget diventò una vera storia. Con tutto ciò che serve a una storia per farsi ascoltare e connettere le persone: l’inizio dell’avventura, le complicazioni, la soluzione semplice ma che sfugge per un soffio, lo scioglimento.
Joseph Campbell, autore del libro The hero with a thousand faces , ha definito questo processo il “Viaggio dell’eroe”, 12 tappe che contraddistinguono ogni grande storia che ci è stata tramandata così come quella di tutti i film che ci tengono incollati allo schermo.
Daniel Pink di recente ha individuato lo stesso schema nei cartoni della Pixar. Questo ad esempio lo schema di “Alla ricerca di Nemo”:
C’era una volta un pesce vedovo di nome Marlin che era estremamente protettivo con il suo unico figlio Nemo. Ogni giorno Marlin ricordava a Nemo i pericoli dell’oceano e lo implorava di non allontanarsi. Un giorno, in un atto di sfida contro il padre, Nemo ignora gli avvertimenti del genitore e va a nuotare in mare aperto. Di conseguenza, viene catturato da un sub e finisce nell’acquario di un dentista di Sydney. Allora, Marlin si mette in viaggio per andare a salvare Nemo, facendosi aiutare da diverse creature marine lungo il percorso. Finché un giorno Marlin e Nemo si ritrovano e capiscono che l’amore si basa sulla fiducia.
Daniel Pink, dunque, propone il seguente modello per creare “le nostre storie”.
C’era una volta ____________________.
Ogni giorno, ____________________. Un giorno ____________________.
Di conseguenza, ____________________. Allora,
____________________. Finché un giorno ____________________.
LinkedIn e le storie
In questo mondo digitale ormai sappiamo che abbiamo bisogno di condividere le nostre idee, farci conoscere e riconoscere. Che l’attenzione ha un costo altissimo e il tempo che ci viene dedicato è un dono del quale dobbiamo avere il massimo rispetto.
Tuttavia, la maggior parte delle idee che vengono condivise continuano ad assomigliare a brochure e comunicati stampa. Sempre più orientate verso l’impressionare e “non cadere” che sul connettersi con le persone.
“Coerenza, profondità ed un desiderio autentico di creare conversazioni (non solo contenuti)”, sono invece secondo Daniel Roth, Editor in Chief di LinkedIn, gli ingredienti necessari e ricorrenti di post e articoli che vengono condivisi di più.
Non si tratta di dover diventare provetti storyteller o hackerare l’algoritmo. Si tratta di iniziare una conversazione: non si dovrebbe cercare e volere altro.
Uscire dalla statistica, raccontare una storia. Metterci dentro la vita reale, ricordare che, anche su un social professionale, ci rivolgiamo a persone con testa ma soprattutto cuore.
A proposito: quanti cani salvò quell’organizzazione umanitaria di Honolulu nell’anno precedente al naufragio della Insiko?
Come si chiamava la cagnolina dispersa in mare? Hai immaginato, almeno una volta durante la lettura, di che colore fosse? Quanto si sentisse abbandonata sulla nave?
Appunto.
A presto, Davide
p.s. Per seguirmi e rimanere aggiornato visita anche davicardi.com
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Per l’articolo che hai appena letto mi sono state di grande aiuto le seguenti fonti:
https://theweek.com/articles/496623/little-dog-lost-sea
https://www.huffpost.com/entry/the-tale-that-launched-a_b_694908
Venditi bene: Tutti i segreti per imparare a convincere gli altri – Daniel Pink
https://www.overcomingbias.com/2010/01/telescope-effect.html
https://www.linkedin.com/pulse/how-can-i-motivate-people-care-my-ideas-cause-sam-horn?trk=portfolio_article-card_title