L’idea dell’Ulivo, per la prima volta, si palesò ai funerali di Benigno Zaccagnini il 7 novembre 1989. 72 anni esatti dopo lo scoppio della Rivoluzione d’ottobre, e due giorni prima della caduta o, come scrissero i giornali allora, dell’apertura del Muro di Berlino. Chi c’è stato li ricorda come un’apoteosi.
Ad officiare le esequie tre cardinali. Ersilio Tonini, vescovo di Ravenna, Achille Silvestrini, Prefetto del supremo tribunale della Segnatura Apostolica, e Ugo Poletti, Vicario della Diocesi di Roma e Presidente della CEI. Non solo tre pezzi da novanta ma anche cardinali ben identificati. Tre cardinali montiniani. Personalità che conoscevano nel profondo la distinzione tra servizio spirituale e servizio politico e che sentivano chiara la vocazione alla formazione della classe dirigente, vocazione diametralmente opposta a quella della eterodirezione delle classi dirigenti, che invece si sarebbe affermata nella vita ecclesiale diventando egemone durante gli anni ‘90 e 2000. Un tris di cardinali insomma venuti a rendere omaggio non solo alla persona, a Zac, il politico mite, ma a una idea di politica, ad una certa idea dell’Italia.
Il 1989, prim’ancora che l’anno della caduta del Muro di Berlino, in Italia è l’anno del CAF: il patto di potere Craxi Andreotti Forlani che sembra eternare gli equilibri politici dei partiti di governo. Andare ai funerali di Benigno Zaccagnini vuol dire per un verso esprimere il proprio dissenso rispetto alla piega che hanno preso le cose in Italia ma anche, per altro verso, a due giorni dalla caduta del muro di Belino, esprimere la propria vicinanza a un politico che 26 anni prima aveva preconizzato la fine del Muro non attraverso il passaggio di eserciti e carri armati ma attraverso il cammino di libertà degli uomini. A Ravenna il 7 novembre del 1989 si diedero appuntamento molti di quelli che amavano la libertà ma detestavano il CAF.
Ma ciò che avvenne fuori da quella chiesa è forse, politicamente, più importante di ciò che avvenne dentro. Il saluto civile della città di Ravenna al suo Benigno venne dato da una breve ma intensissima orazione funebre di Arrigo Boldrini, partigiano comunista e deputato ravennate. Amico d’infanzia di Zaccagnini, entrambi ragazzi di parrocchia, allora della stessa parrocchia, ma in età adulta militanti in partiti avversari per oltre 40 anni. In quelle parole, nella loro intensità e verità si possono cogliere i presupposti umani, antropologici, ideologici, e quindi politici che, una volta caduto il Muro, avrebbero permesso l’incontro politico tra comunisti e cattolici. I funerali di Zaccagnini furono il riconoscimento reciproco di chi per tutti gli anni ‘80 aveva, seppur da posizioni differenti comunque contrastato l’idea di politica diventata egemone e rappresentata dal Partito Socialista di Bettino Craxi. Una idea di politica che, in nome dei “meriti e i bisogni” aveva totalmente schiacciato sul presente, sul qui e ora, sull’appagamento – che poi si sarebbe immediatamente trasformato in “pagamento” – ogni dimensione attiva di militanza impegno e partecipazione politica. Chi andò ai funerali di Zaccagnini ci andò perché portatore di un’altra idea di politica, una idea di politica trascendente, fatta di lavoro e fatica per obbiettivi che magari non si sarebbero ottenuti in vita, ma che sarebbero stati goduti dai posteri. E non è un caso che proprio Ravenna e la sua provincia in quegli anni fosse la più ricca d’Italia. La prosperità infatti non è figlia del tutto e subito, quella semmai è l’opulenza e con essa il debito, ma è frutto proprio della disponibilità a non godere nell’immediato, proprio perché si possiede una visione e una strategia di lungo periodo.
A Ravenna insomma si dà appuntamento il partito del “non ancora” che aveva combattuto per quasi dieci anni il partito del ‘”già”, il partito del “principio speranza” contro il partito del participio presente, il partito del risparmio contro il partito del debito, il partito dell’austerità contro il partito del consumismo, il partito del lungo periodo contro il partito del breve periodo, in una parola l’Italia spiritualmente, antropologicamente, ideologicamente anticraxiana.
I funerali di Zaccagnini furono un lutto da un punto di vista umano ma anche una straordinaria occasione di comunione e di speranza, quella che finalmente, una volta caduto il Muro, i portatori di una idea politica trascendente, non schiacciata sul presente ma orientata a un orizzonte futuro di trasformazione potessero riannodare insieme i fili di un percorso e di un progetto comune. Come si può evincere, tutt’altra cosa dal banale incontro tra riformismi che avrebbe dato vita al Partito Democratico, espediente non per trasformare il Paese ma piuttosto per perpetrare classi dirigenti.
E l’Ulivo, nella speranza che prendeva forma proprio alle esequie di Zaccagnini, nella possibilità di un nuovo incontro tra storie partigiane, era concepito e concepibile come istanza etico politica. La sua ideologia del risanamento non era ancora ossequio supino alle tecnocrazie europee, in nome del rispetto di stupidi patti dello 0, ma era la promessa di una riforma intellettuale e morale, la promessa di una emancipazione dagli anni ‘80 dello sperpero e del debito, di una liberazione dalla dittatura del presente e del breve periodo, per intraprendere finalmente un cammino virtuoso capace di portare non solo l’Italia agli standard di qualità della vita delle migliori nazioni europee, ma gli italiani a guardare a se stessi con ben altro rispetto e considerazione.
Ma anche questo sarebbe riduttivo. Assumendo la distinzione gramsciana tra riformista e riformatore, l’Ulivo ebbe l’ambizione di essere un soggetto riformatore, che parlava al cuore delle persone, che chiamava a un cambio di mentalità, che diceva la possibilità di una Italia nuova, ma non nel segno banale e ragionieristico dell’efficienza, quanto invece in quello di una possibile e praticabile nuova umanità, nuova italianità. Non quella dei nani, delle ballerine e delle discoteche, ma appunto quella incarnata da figure come Benigno Zaccagnini e Arrigo Boldrini. Il sogno di dare finalmente all’Italia una classe dirigente degna di questo nome, di cui tutto il popolo poteva essere orgoglioso, realizzando quindi quella consonanza tra dirigenti e diretti che è l’obbiettivo ultimo di ogni iniziativa politica.
Per una serie di ragioni che non è qui il caso di approfondire, questa promessa non è stata mantenuta. Resta però la suggestione forte di quel pomeriggio di comunione, intesa, complicità tra persone che, anche partendo da punti di vista diversi, condividevano una idea di politica non solo al servizio dell’oggi ma sopratutto del domani. Per il domani dell’Italia e dell’Europa. W l’Ulivo! W Zac!